Perché l’Italia è l’unico Paese europeo a subire ancora gli attacchi dell’eversione armata
di Ernesto Galli Della Loggia
Il filo rosso che parte dal Risorgimento e arriva al terrorismo d’oggi
Ormai non si contano le occasioni in cui il mondo politico - e specialmente il ministro dell’Interno - lancia l’allarme sul rinascente e inestirpabile terrorismo nostrano. Proprio richiamandomi a tale fenomeno, in un editoriale sul Corriere della fine di aprile mi sono posto quello che continua a sembrarmi un interrogativo centrale: «Perché l’Italia è l’unico Paese dell’Unione europea dove ancora alligna, sia pure in misura assai ridotta, il terrorismo rosso e da 20 anni non accenna a scomparire? E perché sempre l’Italia è l’unico Paese dove quel terrorismo sembra essere in grado di godere ancora oggi di un’area più o meno vasta di consenso?». Ma mi sbagliavo. Queste domande a molti studiosi italiani, che pure si occupano per professione della società italiana e della sua storia, non sono apparse un granché interessanti, almeno a giudicare dagli interventi suscitati dall’editoriale in questione (non tutti per mia fortuna, ma di quelli di Belardelli, di Lepre e di Donno, con cui in larga parte concordo, e di cui li ringrazio, naturalmente non mi occuperò). Sull’Unità Luigi Bonanate le ha giudicate addirittura «retoriche e inconsistenti», mentre Giuseppe Galasso e Sergio Luzzatto, intervenuti su questo giornale, non vi hanno prestato la minima attenzione. Nessuno dei due, infatti (e la cosa mi stupisce soprattutto per un antico compagno di battaglie politiche di Spadolini e di La Malfa, quale è Galasso), si è preso la briga di avanzare una propria risposta o un’ipotesi di risposta in merito a una questione che evidentemente per loro è del tutto artificiosa. Niente. Quello che invece con tipica distorsione professorale (me lo si lasci dire) ha soprattutto interessato a entrambi è stato impugnare la matita rossa e blu e correggere gli errori di storia che avrei commesso nell’individuare le ragioni di lungo periodo che stanno dietro l’inestirpabilità del terrorismo italiano. (Sergio Luzzatto ci ha aggiunto del suo due scorrettezze: la falsificazione parodistica delle tesi che gli dispiacciono, per cercare di averne più facilmente ragione, e il processo alle supposte intenzioni politiche attribuite all’antagonista, sempre colpevole di uso pubblico della storia da cui, invece, lui si terrebbe, come si sa, sempre lontanissimo). Tali miei errori, o meglio colpe perché alla mia ignoranza della storia si mischierebbe una maliziosa volontà di distorcere, sarebbero in sostanza due: primo, aver incautamente generalizzato considerando tutte le culture politiche italiane dal Risorgimento in poi come riconducibili ad alcuni caratteri generali, laddove tra di esse ci sarebbero invece diversità insormontabili; e secondo, aver stabilito un nesso assolutamente improprio tra violenza e illegalità diffusa nel corpo sociale italiano e ruolo della violenza nelle culture politiche del Paese. Il tutto con l’ovvia aggravante di avere in questo modo diffamato (in ordine) il Risorgimento, la tradizione liberaldemocratica, l’antifascismo e la Resistenza. Né Galasso né Luzzatto, tuttavia, mi sembra che contestino il punto centrale del mio ragionamento e cioè che tutte le culture politiche italiane «che affondano le radici nella realtà più autentica della nostra storia: il socialismo massimalista, il nazionalfascismo, il comunismo gramsciano, l’azionismo» abbiano alimentato il mito della rivoluzione e dunque, inevitabilmente anche la pratica dell’uso politico della violenza, o quanto meno l’idea della sua ammissibilità. Naturalmente lo hanno fatto ognuna a suo modo, ma mi chiedo: può questa diversità di modi cancellare il dato storico generale, ovvero farlo considerare irrilevante? Può questa diversità di modi mettere in ombra il fatto - a mio giudizio storicamente decisivo e incontestabile - che quel diffuso e tenace mito della rivoluzione non è che l’altra faccia dell’organica debolezza di cui soffre da sempre, in Italia, la cultura politica liberaldemocratica? O forse questa debolezza non esiste? Ma se esiste, allora come si spiega? Sergio Luzzatto ha poco da stracciarsi le vesti evocando i «santi» nomi di Pertini, Riccardo Lombardi ed Emilio Lussu. Dovrebbe sapere bene, infatti, che tutti e tre arrivarono solo in età matura (e Lussu secondo me neppure allora ) a una concezione della democrazia per noi accettabile, e tutti e tre solo dopo aver a lungo frequentato i territori del giacobinismo classista, per qualcuno di essi anche venato di spirito insurrezionalistico. Nessuno peraltro ha voluto gettare loro e Camilla Ravera o Enrico Berlinguer «nella discarica del brigatismo senza fine», ma uno storico non può fingere, come Luzzatto finge di credere (almeno mi auguro che finga), che l’esperienza di una vecchia militante ordinovista come la Ravera o quella di un intelligente quadro togliattiano come Berlinguer siano sic et simpliciter ascrivibili alla «democrazia» o ancor più allo «Stato di diritto». Questo sì significa fare un’operazione di indiscriminata ammucchiata ideologica priva di qualunque fondamento nella realtà: proprio così, tra l’altro, accreditando - se ne sia consapevoli o meno - una versione della storia del Paese tutta subordinata alle necessità ideologiche di uno schieramento politico. A mio parere è insomma irrefutabile, come ho scritto, che la storia dell’Italia unita abbia visto nei suoi diversi gruppi dirigenti politici e nelle loro culture una non comune diffusione dell’idea che a certe condizioni la violenza fosse ammissibile, addirittura necessaria. Egualmente continua a sembrarmi assai probabile che un effetto rilevante abbia avuto in tal senso il Dna risorgimentale. Non già perché creda che solo in Italia l’unità del Paese sia stata fatta con la violenza, e che altrove il cammino della storia, invece, sia stato tutto rose e fiori, secondo il pensiero che mi attribuisce Galasso; figuriamoci! Ma perché solo in Italia (forse in Irlanda c’è stato qualcosa di analogo) si è avuto quel particolarissimo rapporto insieme di scontro ma anche di contiguità e di occulto supporto, tra l’ala liberal-legalitaria da un lato e l’ala democratico-rivoluzionaria dall’altra. Un rapporto che non finì nel 1861. Dicono nulla i nomi di Aspromonte e di Mentana? Significa qualcosa il fatto che pure dopo quella data governi legali devoti formalmente allo Stato di diritto, come erano i governi italiani dell’epoca, appoggiassero sottobanco il reclutamento e le operazioni di bande armate irregolari (i garibaldini), salvo poi sconfessarle ipocritamente al verificarsi del loro insuccesso e magari arrestarne i promotori? Sì, Giuseppe Galasso può credere, se vuole, che a episodi siffatti non si debba dare alla fin fine troppa importanza. Ma ad altri, per esempio a chi scrive, sarà pur consentito, invece, pensare che essi abbiano contribuito per così dire a fondare un modello, a stabilire un precedente «patriottico» che non ha mancato di avere conseguenze anche a molti anni di distanza. Per esempio quando nella primavera del 1915 un altro governo italiano, naturalmente sempre per uno scopo «patriottico», si acconciò senza problemi a manovrare una piazza insurrezionale, ad accordarsi sottobanco con essa, pur di raggiungere il proprio obiettivo. Ed è davvero così azzardato pensare che il ricordo di certe iniziative risorgimentali mazziniano-garibaldine abbia avuto qualche peso nel far accettare alla classe dirigente liberale cose come lo squadrismo e la «marcia su Roma», forse non proprio irreprensibili dal punto di vista della legalità, ma giustificabili (e ahimè giustificate) in nome per l’appunto dell’interesse di una patria che era stata fatta nel modo che si è detto? Poche parole infine su un’ultima questione. Se la vicenda nazionale offre, come a me pare che offra, un materiale storico come quello sopradescritto, punteggiato dall’impiego della violenza nella lotta politica e dalla sua diffusa, permanente, giustificazione ideologica, perché mai non deve essere consentito immaginare un qualche parallelo tra questo fenomeno e la storica propensione all’illegalità in genere e all’uso della violenza nei rapporti tra le persone e i gruppi sociali di tanta parte della società italiana? Le società, infatti, perlopiù funzionano così: come un tutto non a compartimenti stagni; e davvero non capisco come possa essere addebitato a colpa di chi le studia il semplice fatto di tenerne conto.
Il dibattito sulle radici della violenza nella cultura politica in Italia ha preso le mosse da un articolo di fondo di Ernesto Galli della Loggia uscito sul «Corriere» il 27 aprile. Sono seguiti a commento gli interventi di Giuseppe Galasso (29 aprile), Giovanni Belardelli (1° maggio), Sergio Luzzatto (3 maggio), Gianni Donno (16 maggio), Aurelio Lepre (21 maggio).
«Corriere della Sera» del 31 maggio 2007
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