Dopo gli interventi di Galasso e Belardelli, continua il dibattito sulle tesi di Galli della Loggia
di Sergio Luzzatto
Sbagliato mettere sullo stesso piano Garibaldi e Nenni, Mussolini e Gramsci
La storia è maestra di vita, si usa dire, tenendo dietro a Cicerone. Ma può capitare che il rimando al passato diventi poco più che un pretesto per propugnare tesi curvate dall’ideologia, che con la realtà della storia hanno poco o nulla a che fare. È il caso della riflessione di Ernesto Galli della Loggia, nel suo editoriale pubblicato sul Corriere del 27 aprile e intitolato «Brigatismo senza fine». Galli della Loggia muove da un interrogativo pertinente: come mai l’Italia è l’unico Paese dell’Unione europea dove ancora scorre, a decenni di distanza dagli anni di piombo, un fiumicello di consenso (o comunque di tolleranza) verso la cultura terroristica? La risposta cui l’editorialista perviene, volgendosi a considerare il nostro passato nazionale, riesce tuttavia impossibile da condividere. «Un’antica e lunga contiguità con la violenza», di contro a uno Stato di diritto caro soltanto a «sparutissime minoranze»: questo il filo rosso della nostra storia nazionale, quale Galli della Loggia ritiene di poter riconoscere muovendo dall’ultimo episodio di cronaca, le celebrazioni milanesi del 25 aprile e la loro appendice di cartelli e slogan filo brigatisti. Peccato però che l’argomentazione storico-politica di Galli della Loggia risulti così ingarbugliata da offrire, più che un criterio felicemente esplicativo, un pot-pourri francamente indigesto. Non si capisce l’utilità di un ragionamento sul nostro passato che precipiti in un unico calderone, relativamente al mito della rivoluzione e alla seduzione della violenza, Garibaldi con i suoi Mille e i socialisti massimalisti del «biennio rosso»; il duce del fascismo Benito Mussolini e la sua vittima politicamente più insigne, il comunista Antonio Gramsci; un capo azionista come Leo Valiani e i suoi nemici giurati delle Brigate rosse... Oltre un secolo di storia italiana, una varietà di culture politiche diverse e per molti aspetti contrapposte, implose nel buco nero del «brigatismo senza fine»? In generale, non si capisce l’utilità di un amalgama fra situazioni di autentica guerra civile fra italiani, e tutto il resto della nostra storia moderna. O meglio: è un’utilità che si capisce, ma a condizione di identificarne il presupposto ideologico: la trasformazione della guerra civile del 1943-45, dello scontro armato tra nazifascisti e antifascisti, in un episodio fra i tanti di un’interminabile lotta di fazioni. La Resistenza come ennesima macelleria nella nostra storia, che l’improbabile filo rosso di Galli della Loggia cuce insieme, indifferentemente, con le fucilate di Nino Bixio a Bronte o con le sparatorie dei brigatisti in via Fani. Meno che mai si capisce l’utilità di collegare il fiumicello carsico della cultura terroristica all’amazzonico fiume dell’illegalità di massa in Italia. Come se davvero il giovinastro che non paga il biglietto sull’autobus, il professionista che evade il fisco, il furbacchione che costruisce la casa abusiva, l’inquisito che diventa deputato, facessero tutt’uno con il pacifista che manifesta contro la base americana di Vicenza, o con il militante della sinistra «antagonista» che sbandiera striscioni filo Br nella Milano del 25 aprile. E come se tutti loro appartenessero alla stessa famiglia politica e culturale del terrorista che uccide professori di diritto del lavoro! Sono ragionamenti ai quali si fatica addirittura a replicare, tanto appaiono sprovvisti di qualunque fondamento. Ma l’ingrediente più difficile da digerire, nel pot-pourri di Galli della Loggia, è quello che legherebbe le culture politiche del socialismo e del fascismo, del comunismo e dell’azionismo, alle «più importanti organizzazioni storiche della criminalità europea»: cioè - sembra di capire - alla mafia e alla camorra. Una tesi, questa, che suona quasi come un insulto alla memoria di quanti, sentendosi di destra o (più spesso) di sinistra, nella lotta contro la criminalità organizzata hanno impegnato la vita. E magari, come Paolo Borsellino o Pio La Torre, hanno trovato la morte. Checché possa dirne Galli della Loggia, nei centocinquant’anni che ci separano dal Risorgimento i socialisti, gli azionisti, gli stessi comunisti (non i fascisti, evidentemente) hanno fatto moltissimo perché si affermasse in Italia uno Stato di diritto: altro che «sparutissime minoranze»... Liquidare in poche parole, gettandole nella discarica del «brigatismo senza fine», esperienze democratiche tanto qualificate e fondanti come quella del socialismo di un Sandro Pertini o di un Riccardo Lombardi, dell’azionismo di un Ugo La Malfa o di un Emilio Lussu, del comunismo di una Camilla Ravera o di un Enrico Berlinguer, corrisponde a un pessimo esempio di uso pubblico della storia. Guarda caso, l’unica cultura politica che Galli della Loggia salva dalla scomunica è quella dei cattolici. E beninteso, ha tutte le ragioni per farlo, laddove ci si riferisca alla grande cultura politica degli Alcide De Gasperi o degli Oscar Luigi Scalfaro. Mentre appaiono meno rispettosi dello Stato di diritto i loro odierni nipotini: i «teo-dem» che si vantano di prendere ordini dal Vaticano più che di rispettare l’evoluzione della nostra cultura dei diritti.
POLITICA E STORIA
Riflessione su un anomalo 25 aprile
Violenza politica e storia d’Italia sono al centro del dibattito che si è aperto sulle colonne del «Corriere». Nel fondo del 27 aprile Ernesto Galli della Loggia, prendendo le mosse dalla solidarietà espressa alle nuove Br da alcune frange estremiste giovanili, individuava le origini del fenomeno nel successo che le ideologie rivoluzionarie, anche di matrice democratica, hanno avuto in Italia dal Risorgimento in poi. Questa tesi è stata contestata il 29 aprile da Giuseppe Galasso, che ha ricordato come tutti gli Stati moderni siano nati da conflitti cruenti, negando che Risorgimento e Resistenza possano essere appiattiti sulla dimensione della violenza. Martedì scorso è poi intervenuto Giovanni Belardelli, che ha denunciato le conseguenze deleterie prodotte dal mito della lotta partigiana come «rivoluzione tradita». Oggi prende la parola, in polemica con Galli della Loggia, Sergio Luzzatto.
«Corriere della sera» del 3 maggio 2007
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