04 luglio 2007

Non c’è solo violenza nel nostro album di famiglia

Una risposta a Ernesto Galli della Loggia sul rapporto fra storia d’Italia e terrorismo
di Giuseppe Galasso
Sbaglia chi riduce Risorgimento e Resistenza a fenomeni illegali
C’è una «presenza storica nella società italiana di un fondo di violenza duro, tenace, che da sempre oppone un ostacolo insormontabile alla diffusione della cultura della legalità»? E davvero gli italiani, «sorti alla statualità da un moto rivoluzionario con alcuni tratti di guerra civile», quale sarebbe il Risorgimento, se ne sono portati dietro «l’idea che a certe condizioni la violenza sia ammissibile, addirittura necessaria», cioè l’idea che «ha caratterizzato in modo netto tutte le moderne culture politiche» in Italia, dal socialismo massimalista al nazionalfascismo, al comunismo gramsciano e all’azionismo? E anche della Resistenza, fonte «della stessa legittimazione della Repubblica», si deve perciò ricordare il «mito rivoluzionario»? Quel mito, con il quale, e «con la sua cultura, la democrazia da noi non ha potuto che vivere gomito a gomito, e spesso intrecciata»? Il che sarebbe tanto vero che, se non avesse fatto eccezione, «a livello di massa», la cultura politica cattolica, «è probabile che non ci sarebbe stata neppure l’Italia democratica che invece abbiamo avuto». E si spiega quindi, con questo «germe della violenza» che «l’Italia democratica porta in un certo senso (in un certo senso?, mi chiedo) dentro di sé, nella sua storia culturale e dunque nella sua antropologia accreditata», non solo il tenace allignare del terrorismo e del brigatismo evocato anche nelle recenti celebrazioni del 25 aprile, ma perfino il fatto che l’Italia sia «la patria delle più importanti organizzazioni storiche della criminalità europea». Confesso di essere rimasto più che interdetto a queste affermazioni di Ernesto Galli della Loggia nel suo fondo di venerdì, pur letto e riletto da me con la dovuta e meritata attenzione che porto a quanto egli scrive, anche quando ne dissento. Interdetto perché vedo qui davvero maltrattate - oltre tutto quello che a me, nel mio piccolo, pare possibile - la tradizione italiana e quella della libertà italiana. Questo mettere insieme con il terrorismo e con il brigatismo rosso, con la mafia e con la camorra, in un rapporto stretto di filiazione o di congenialità, il Risorgimento, la Resistenza, il socialismo massimalista, il nazional-fascismo, il gramscismo, l’azionismo, il liberalismo e la democrazia italiana, nel solco di un’unica vocazione configurata come un «carattere originale» (alla Marc Bloch) della storia nazionale, anzi come una sua «antropologia accreditata», mi pare inaccettabile e del tutto fuorviante. Oltre tutto, se ne potranno fare un vanto brigatisti e terroristi, mafiosi e camorristi, abilitati con ciò a presentarsi come esponenti e prosecutori di un tale «carattere originale» o «antropologia accreditata» della storia e della gente italiana. La violenza? Ma essa è stata all’origine di tutte le democrazie moderne, da quella inglese (con le sanguinosissime e lunghe guerre civili del Seicento, l’esecuzione di Carlo I, la lunga oppressione dei cattolici, il frequente rischio della guerra civile nei primi tempi della rivoluzione industriale, e come fu in particolare fra il 1830 e il 1845) a quella francese (quattro rivoluzioni in meno di un secolo, la prima sanguinosissima, e così quella del 1870-71 con la guerra civile della «Commune», e lasciamo stare i violenti fermenti «fascistici» in tutto il Novecento). Giudicheremo con questo metro il Risorgimento, che fu molto meno sanguinoso e violento? Bisognerà allora condannare i movimenti e le rivolte di mezza Europa all’Est e all’Ovest per l’indipendenza nazionale? E la Resistenza? Solo «mito rivoluzionario»? Io non ho il «mito» della Resistenza, ma imputare a quest’ultima la violenza e la rivolta in presenza di un’occupazione militare dalla mano, diciamo così, non leggera, mi pare incredibile. E la libertà italiana dovuta alla cultura politica cattolica a livello di massa, anziché al liberalismo e alla democrazia che furono dei Cavour e degli Einaudi, dei Mazzini e degli Amendola, dei Turati e dei Saragat, tanto per fare qualche nome? Ricordo solo che la cultura cattolica a livello di massa è stata per molti decenni un ostacolo all’Italia liberaldemocratica, superato solo quando in quella cultura vi fu una piena accettazione del principio liberaldemocratico, con enorme guadagno dell’Italia e della sua libertà, ma forse anche dei cattolici. E ricordo pure che una certa sociologia cattolica è stata la matrice di un certo brigatismo (si pensi a Trento e a Renato Curcio, per un esempio). Ma basti qui (i motivi di tristezza della nostra vita pubblica sono già tanti!), anche se non posso fare a meno di pensare a quel che avrebbero pensato di questa visione del Risorgimento e del liberalismo italiano un Mario Pannunzio, un Rosario Romeo, uno Spadolini o un Valiani o cattolici come un Arturo Carlo Jemolo. Dopo di che sono del tutto d’accordo con Galli della Loggia sui blocchi di stazioni e autostrade e su altre amenities della permissività di un conformismo populistico e demagogico (e di una certa inclinazione di larghi settori cattolici), che non ha nulla a che fare col liberalismo e con la democrazia.
Sotto accusa le culture «rivoluzionarie» Nelle culture di matrice rivoluzionaria che hanno dominato la scena italiana a partire dal Risorgimento (nella foto qui sopra un’immagine delle Cinque Giornate di Milano) Ernesto Galli della Loggia ha individuato, nel fondo del «Corriere» di ieri, le radici storiche della persistente popolarità della violenza politica in questo Paese. Un’analisi che non trova concorde Giuseppe Galasso, di cui qui accanto pubblichiamo la replica. L’articolo di Galli della Loggia prendeva spunto dall’esposizione, durante le manifestazioni per il 25 aprile, di scritte in favore dei brigatisti rossi recentemente arrestati. Ma in generale si riferiva alla grande difficoltà che s’incontra nel tentativo d’imporre in Italia una cultura della legalità che si basi sul rispetto delle regole della convivenza democratica.
« Corriere della Sera» del 29 aprile 2007

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