Ecco le lettere e i disegni inediti che l’autore del «Piccolo Principe» dedicò a una ragazza «sconosciuta» amata poco prima di morire. Lui aveva appena finito il suo capolavoro, lei era una crocerossina di 23 anni
di Stenio Solinas
Profumo di donna. Se dovessimo raccogliere in una formula le lettere d’amore di Saint-Exupéry, nulla sarebbe più efficace di questa impressione impalpabile, tenera eppure carnale, un misto di seduzione e di fantasia, un affidarsi ai sensi per meglio dar corso all’immaginazione. Era un appassionato delle donne, Saint-Exupéry, ma si portava dietro un triplice senso di colpa che gli impediva di essere un cinico, tragico Don Giovanni ossessionato dall’idea della conquista e del possesso, un pagano, umano Casanova perso e preso nei piaceri e nei misteri del sesso.
Era il senso di colpa di chi, bambino, non era mai riuscito a trovare le parole giuste di amore e di riconoscenza per la madre. Era il senso di colpa di chi, aviatore, apparteneva a un «ordine» che alle donne lasciava solo il senso dell’attesa: a terra, sempre e comunque, tagliate fuori da ciò che in cielo intanto accadeva, condannate a sperare, destinate a piangere un sacrificio che non era per loro, incomprensibile e quindi ancora più doloroso. Era il senso di colpa di chi, marito oppure amante, era instabile, irrequieto e quindi invivibile, infedele a tutte, ma troppo delicato per poter sopportare le sofferenze anche di una sola.
La venerazione dell’elemento femminile faceva in fondo parte di un preciso senso della vita, il polo opposto, nella sua stabilità, a una mistica dell’erranza infinita e quindi incessante. Moderno Odisseo, la donna era per lui al tempo stesso Penelope e Itaca, secondo una bella immagine di Alban Cerisier, «una provvista di tenerezza per l’eterno ritorno», «la limpida sorgente», «la fontana» alla quale ci si abbevera, ci si ristora, si prende il giusto riposo. Era però il partire che dava un senso al tornare, e il tornare non aveva in sé la forza che rende preferibile il restare.
Tutto questo spiega perché nelle lettere d’amore ciò che lo esalta sia sempre e comunque un’idea di conforto, di consolazione, di rifugio. «Sii la mia protezione, fammi un mantello del tuo amore». «Ero cieco: illuminami. Ero sparpagliato e infelice: rimettimi insieme. Ero completamente arido, fammi generoso d’amore». Non cercava delle ispiratrici intellettuali e neppure delle fonti di piacere carnale: cercava delle vestali, sacerdotesse del suo fuoco.
Il carnet delle conquiste è tanto più ricco quanto l’erotismo, per non dire il sesso, è esente dai suoi libri. Nei disegni d’occasione, le figure femminili rimandano alla moda al gusto del tempo, il Novecento fra le due guerre: silhouettes magre ed eleganti, l’androginia di un’epoca che si illude di liberare la donna rendendola più maschio... Ciò che l’occhio coglie sotto il profilo estetico, il cuore riconduce alla tristezza della carne se priva di spiritualità: «Colette, Paulette, Suzy, Daisy, Gaby, che sono fatte in serie e dopo due ore annoiano, come delle sale d’attesa». Quelle che lo interessano si chiamano Louise de Vilmorin, il primo amore della giovinezza, Natalie Paley, Nanda de Bragance, Silvia Hamilton, Hedda Sterne, Nelly de Vogüé: quasi tutte aristocratiche, spesso intellettualmente coltivate, comunque ricche.
Aveva sempre vissuto al di sopra dei suoi mezzi, Saint-Exupéry, e si lasciava dietro una scia noncurante di debiti. Nel 1936, già famoso, aveva dovuto lasciare per morosità il suo appartamento in affitto. «Vi decidete una buona volta a portare via i mobili?» gli aveva detto giorni dopo il padrone di casa. «Non posso, sono sotto sequestro» era stata la risposta.
Da quell’elenco mancano due nomi. Uno è quello della giovane francese che è la protagonista di queste Lettere a una sconosciuta. L’ultimo amore del Piccolo Principe (Bompiani, pagg. 24, euro 12, traduzione di Sergio Claudio Perroni). Aveva ventitré anni, era crocerossina: si erano conosciuti nell’estate del ’43 sul treno che da Orano portava ad Algeri e ciò che resta è questo pugno di scritti e di disegni dove più che l’amore c’è la malinconica illusione dell’amore. «Le favole sono fatte così. Una mattina ti svegli e dici: “Era solo una favola”... Sorridi di te. Ma nel profondo non sorridi affatto. Sai bene che le favole sono l’unica verità della vita». Aveva passato i quarant’anni, si sentiva stanco e superato, aveva bisogno di un calore vicino, sperava ancora di trovare un focolare, non rinunciava a immaginarselo: il dolce-amaro di chi alimenta dentro di sé quella fiamma pur sapendo che fuori resterà spenta...
L’altro è il nome di Consuelo, la moglie tanto amata eppure tanto tradita. Nei giorni in cui alla piccola sconosciuta invia disegni e rimbrotti da ragazzo che non ci sta ad invecchiare, le scrive: «Se sono ferito, avrò chi mi curerà. Se sono ucciso avrò chi aspettare nell’eternità. Se torno avrò verso chi tornare. Non sono che un grande cantico di riconoscenza». Consuelo era la rosa disegnata e raccontata nel Piccolo principe, il fiore da cui il principe-bambino Saint-Exupéry si era allontanato perché «i fiori sono così contraddittori! Ma ero troppo giovane per saperlo amare». E invece, «lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messo sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa».
Era il senso di colpa di chi, bambino, non era mai riuscito a trovare le parole giuste di amore e di riconoscenza per la madre. Era il senso di colpa di chi, aviatore, apparteneva a un «ordine» che alle donne lasciava solo il senso dell’attesa: a terra, sempre e comunque, tagliate fuori da ciò che in cielo intanto accadeva, condannate a sperare, destinate a piangere un sacrificio che non era per loro, incomprensibile e quindi ancora più doloroso. Era il senso di colpa di chi, marito oppure amante, era instabile, irrequieto e quindi invivibile, infedele a tutte, ma troppo delicato per poter sopportare le sofferenze anche di una sola.
La venerazione dell’elemento femminile faceva in fondo parte di un preciso senso della vita, il polo opposto, nella sua stabilità, a una mistica dell’erranza infinita e quindi incessante. Moderno Odisseo, la donna era per lui al tempo stesso Penelope e Itaca, secondo una bella immagine di Alban Cerisier, «una provvista di tenerezza per l’eterno ritorno», «la limpida sorgente», «la fontana» alla quale ci si abbevera, ci si ristora, si prende il giusto riposo. Era però il partire che dava un senso al tornare, e il tornare non aveva in sé la forza che rende preferibile il restare.
Tutto questo spiega perché nelle lettere d’amore ciò che lo esalta sia sempre e comunque un’idea di conforto, di consolazione, di rifugio. «Sii la mia protezione, fammi un mantello del tuo amore». «Ero cieco: illuminami. Ero sparpagliato e infelice: rimettimi insieme. Ero completamente arido, fammi generoso d’amore». Non cercava delle ispiratrici intellettuali e neppure delle fonti di piacere carnale: cercava delle vestali, sacerdotesse del suo fuoco.
Il carnet delle conquiste è tanto più ricco quanto l’erotismo, per non dire il sesso, è esente dai suoi libri. Nei disegni d’occasione, le figure femminili rimandano alla moda al gusto del tempo, il Novecento fra le due guerre: silhouettes magre ed eleganti, l’androginia di un’epoca che si illude di liberare la donna rendendola più maschio... Ciò che l’occhio coglie sotto il profilo estetico, il cuore riconduce alla tristezza della carne se priva di spiritualità: «Colette, Paulette, Suzy, Daisy, Gaby, che sono fatte in serie e dopo due ore annoiano, come delle sale d’attesa». Quelle che lo interessano si chiamano Louise de Vilmorin, il primo amore della giovinezza, Natalie Paley, Nanda de Bragance, Silvia Hamilton, Hedda Sterne, Nelly de Vogüé: quasi tutte aristocratiche, spesso intellettualmente coltivate, comunque ricche.
Aveva sempre vissuto al di sopra dei suoi mezzi, Saint-Exupéry, e si lasciava dietro una scia noncurante di debiti. Nel 1936, già famoso, aveva dovuto lasciare per morosità il suo appartamento in affitto. «Vi decidete una buona volta a portare via i mobili?» gli aveva detto giorni dopo il padrone di casa. «Non posso, sono sotto sequestro» era stata la risposta.
Da quell’elenco mancano due nomi. Uno è quello della giovane francese che è la protagonista di queste Lettere a una sconosciuta. L’ultimo amore del Piccolo Principe (Bompiani, pagg. 24, euro 12, traduzione di Sergio Claudio Perroni). Aveva ventitré anni, era crocerossina: si erano conosciuti nell’estate del ’43 sul treno che da Orano portava ad Algeri e ciò che resta è questo pugno di scritti e di disegni dove più che l’amore c’è la malinconica illusione dell’amore. «Le favole sono fatte così. Una mattina ti svegli e dici: “Era solo una favola”... Sorridi di te. Ma nel profondo non sorridi affatto. Sai bene che le favole sono l’unica verità della vita». Aveva passato i quarant’anni, si sentiva stanco e superato, aveva bisogno di un calore vicino, sperava ancora di trovare un focolare, non rinunciava a immaginarselo: il dolce-amaro di chi alimenta dentro di sé quella fiamma pur sapendo che fuori resterà spenta...
L’altro è il nome di Consuelo, la moglie tanto amata eppure tanto tradita. Nei giorni in cui alla piccola sconosciuta invia disegni e rimbrotti da ragazzo che non ci sta ad invecchiare, le scrive: «Se sono ferito, avrò chi mi curerà. Se sono ucciso avrò chi aspettare nell’eternità. Se torno avrò verso chi tornare. Non sono che un grande cantico di riconoscenza». Consuelo era la rosa disegnata e raccontata nel Piccolo principe, il fiore da cui il principe-bambino Saint-Exupéry si era allontanato perché «i fiori sono così contraddittori! Ma ero troppo giovane per saperlo amare». E invece, «lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messo sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa».
«Il Giornale» del 25 novembre 2009
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