Ribellismo e scontro generazionale non hanno origine nel secondo dopoguerra, ma nell’Ottocento
di Luca Beatrice
È opinione comune che la categoria del giovane nasca dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando il processo di pacificazione si è finalmente compiuto, sono disponibili più risorse economiche per l’individuo e lo sviluppo dell’industria del tempo libero dimostra che le persone non vivono soltanto per lavorare. Moda, cinema, musica soprattutto, sono i segnali che individuano il giovane: in particolare con l’avvento del disco a 45 giri, lanciato sul mercato per il nuovissimo prodotto del rock and roll, vengono alla ribalta le nuove generazioni e i loro comportamenti differenti e ribelli rispetto alla cultura dei padri.
Quella che sembrava una prerogativa della società moderna e del Novecento maturo risale invece a parecchio tempo addietro. Ce lo dimostra L’invenzione dei giovani (pagg. 494, euro 30), l’ultimo libro di Jon Savage, un lungo saggio che si legge come un avvincente romanzo, uscito in Inghilterra nel 2007 e appena tradotto da Feltrinelli. Savage è un punto di riferimento nella critica musicale e ha pubblicato la summa del punk britannico. Sarebbe quindi logico aspettarsi da lui un’analisi focalizzata sul contemporaneo. E invece no, Savage teorizza, motivandolo con fonti storico-letterarie, che la «categoria» dei giovani esiste in Occidente almeno dalla seconda metà dell’Ottocento, quando già il romanticismo aveva introdotto una figura di ribelle senza motivo, oltre le regole e le convenzioni, tormentato dal proprio egocentrismo e inseguito dalla propria autodistruttività.
Tale doveva essere il potere persuasivo della scrittura che molti ragazzi trovarono ispirazione in comportamenti suggeriti dai libri e dai loro autori. Dallo Sturm und Drang tedesco, che mescola la follia al male di vivere, si passa al decadentismo di Arthur Rimbaud, la cui morte prematura lo trasforma nell’icona del ribellismo francese, fino all’eccentrismo dandy di Oscar Wilde, alla sua dichiarata omosessualità che paga di persona per aver voluto prendersi il rischio di sbandierare ai quattro venti quel che molti consumano in privato. Il suo romanzo più celebre, Il ritratto di Dorian Gray, è un inno all’eterna giovinezza che molti giovani di diverse epoche prendono a modello di chi non accetta l’invecchiamento fisico e mentale.
C’è dunque terreno fertile per il formarsi di gruppi che si aggregano come i teenagers di oggi a partire dai comportamenti e dai vestiti. Queste bande che scorrazzano nell’Inghilterra e in America a fine Ottocento spesso creano problemi di ordine pubblico, favorendo lo sviluppo incontrollato del crimine: le cronache d’epoca riferiscono di scontri tra opposte fazioni, disordini con la polizia provocati soprattutto dall’orda di teppisti provenienti dalla periferia, turbolenti per definizione e per povertà. Storie non poi così dissimili da quelle attuali.
La realtà dunque si ispira alla finzione traendone quegli spunti in grado di giustificare la voglia di sentirsi diversi, pur senza avere ancora un progetto con cui cambiare il mondo. Si tratta di atteggiamenti perlopiù solipsisti e individualistici, quelli ispirati ad altri due topoi letterari che hanno goduto di smisurata fortuna. Il meraviglioso mondo di Oz, scritto da Frank Baum nel 1900, è una fiaba moderna dove permangono meraviglia e allegria, lasciando fuori incubi e dolori, un testo pre-psichedelico che evoca la fuga dalla realtà e stabilisce interessanti connessioni con la nascente psicanalisi e in particolare con la lettura freudiana dell’opera d’arte. Nel 1902 James Matthew Barrie pubblica Peter Pan, ovvero la storia di un ragazzo che non vuole crescere, una favola che i bambini adorano ma che cela diversi piani di lettura inquietanti, come l’incapacità di prendere decisioni, il non trovare un posto dove stare, il rifuggire le proprie responsabilità: «sono scappato il giorno stesso che sono nato perché ho sentito papà e mamma parlare di quello che sarei diventato da grande», confessa l’elfo di verde vestito, dove il prezzo da pagare per l’eterna giovinezza è la maledizione dello sviluppo bloccato, con conseguente rinuncia alla sfera sessuale, se non in una chiave abnorme e perversa.
Siamo alla fine del primo decennio del Novecento e mentre gli adolescenti americani si confrontano con la questione del lavoro, gli europei si trovano a fronteggiare l’imminenza di una guerra globale e devastante. Invece di rigettarla, spesso ne sposano la causa, intravedendo così la possibilità di spazzare via quei vecchi ormai marci che niente hanno fatto per evitarla. In tale contesto nasce il termine «generazione», esemplificatosi soprattutto nelle avanguardie artistiche. I giovani artisti, futuristi ed espressionisti, cubisti e vorticisti, compilano manifesti che suonano da dichiarazione di poetica contro il mondo degli anziani, dove tutto è obsoleto e sbagliato. Ogni nuova generazione ha l’obbligo di rompere con le precedenti, crede nella tecnologia, nella velocità e nel disordine, ama provocare utilizzando linguaggi retorici che invitano a vivere l’hic et nunc. Marinetti & C come punk ante litteram?
Il passo successivo, secondo Jon Savage, porta all’esaltazione del termine «giovinezza» in quei gruppi che favoriranno il diffondersi del fascismo e del nazismo, dove si recupera il significato del termine «identità nazionale» non in linea con la tradizione, ma come desiderio drammaticamente utopistico di frattura nichilista. Il racconto si fa incalzante e mentre la vecchia Europa brucia, l’America di Hollywood, di Disney e del jazz inventa nuovi modelli di consumo per una prossima era pacificata, democratica e dominata dal sogno a stelle e strisce.
«Siamo la generazione senza legami e senza profondità. La nostra profondità è l’abisso. Siamo la generazione senza felicità, senza casa e senza addii». Non sono parole di una canzone di Ian Curtis, leader dei Joy Division, ma una dichiarazione di Wolfgang Borchert, scrittore e drammaturgo tedesco morto a 27 anni nel 1947. Perdendoci nei meandri de L’invenzione dei giovani potremmo scoprire inquietanti connessioni tra passato e presente di un mondo che esiste da sempre e forse non cambierà mai.
Quella che sembrava una prerogativa della società moderna e del Novecento maturo risale invece a parecchio tempo addietro. Ce lo dimostra L’invenzione dei giovani (pagg. 494, euro 30), l’ultimo libro di Jon Savage, un lungo saggio che si legge come un avvincente romanzo, uscito in Inghilterra nel 2007 e appena tradotto da Feltrinelli. Savage è un punto di riferimento nella critica musicale e ha pubblicato la summa del punk britannico. Sarebbe quindi logico aspettarsi da lui un’analisi focalizzata sul contemporaneo. E invece no, Savage teorizza, motivandolo con fonti storico-letterarie, che la «categoria» dei giovani esiste in Occidente almeno dalla seconda metà dell’Ottocento, quando già il romanticismo aveva introdotto una figura di ribelle senza motivo, oltre le regole e le convenzioni, tormentato dal proprio egocentrismo e inseguito dalla propria autodistruttività.
Tale doveva essere il potere persuasivo della scrittura che molti ragazzi trovarono ispirazione in comportamenti suggeriti dai libri e dai loro autori. Dallo Sturm und Drang tedesco, che mescola la follia al male di vivere, si passa al decadentismo di Arthur Rimbaud, la cui morte prematura lo trasforma nell’icona del ribellismo francese, fino all’eccentrismo dandy di Oscar Wilde, alla sua dichiarata omosessualità che paga di persona per aver voluto prendersi il rischio di sbandierare ai quattro venti quel che molti consumano in privato. Il suo romanzo più celebre, Il ritratto di Dorian Gray, è un inno all’eterna giovinezza che molti giovani di diverse epoche prendono a modello di chi non accetta l’invecchiamento fisico e mentale.
C’è dunque terreno fertile per il formarsi di gruppi che si aggregano come i teenagers di oggi a partire dai comportamenti e dai vestiti. Queste bande che scorrazzano nell’Inghilterra e in America a fine Ottocento spesso creano problemi di ordine pubblico, favorendo lo sviluppo incontrollato del crimine: le cronache d’epoca riferiscono di scontri tra opposte fazioni, disordini con la polizia provocati soprattutto dall’orda di teppisti provenienti dalla periferia, turbolenti per definizione e per povertà. Storie non poi così dissimili da quelle attuali.
La realtà dunque si ispira alla finzione traendone quegli spunti in grado di giustificare la voglia di sentirsi diversi, pur senza avere ancora un progetto con cui cambiare il mondo. Si tratta di atteggiamenti perlopiù solipsisti e individualistici, quelli ispirati ad altri due topoi letterari che hanno goduto di smisurata fortuna. Il meraviglioso mondo di Oz, scritto da Frank Baum nel 1900, è una fiaba moderna dove permangono meraviglia e allegria, lasciando fuori incubi e dolori, un testo pre-psichedelico che evoca la fuga dalla realtà e stabilisce interessanti connessioni con la nascente psicanalisi e in particolare con la lettura freudiana dell’opera d’arte. Nel 1902 James Matthew Barrie pubblica Peter Pan, ovvero la storia di un ragazzo che non vuole crescere, una favola che i bambini adorano ma che cela diversi piani di lettura inquietanti, come l’incapacità di prendere decisioni, il non trovare un posto dove stare, il rifuggire le proprie responsabilità: «sono scappato il giorno stesso che sono nato perché ho sentito papà e mamma parlare di quello che sarei diventato da grande», confessa l’elfo di verde vestito, dove il prezzo da pagare per l’eterna giovinezza è la maledizione dello sviluppo bloccato, con conseguente rinuncia alla sfera sessuale, se non in una chiave abnorme e perversa.
Siamo alla fine del primo decennio del Novecento e mentre gli adolescenti americani si confrontano con la questione del lavoro, gli europei si trovano a fronteggiare l’imminenza di una guerra globale e devastante. Invece di rigettarla, spesso ne sposano la causa, intravedendo così la possibilità di spazzare via quei vecchi ormai marci che niente hanno fatto per evitarla. In tale contesto nasce il termine «generazione», esemplificatosi soprattutto nelle avanguardie artistiche. I giovani artisti, futuristi ed espressionisti, cubisti e vorticisti, compilano manifesti che suonano da dichiarazione di poetica contro il mondo degli anziani, dove tutto è obsoleto e sbagliato. Ogni nuova generazione ha l’obbligo di rompere con le precedenti, crede nella tecnologia, nella velocità e nel disordine, ama provocare utilizzando linguaggi retorici che invitano a vivere l’hic et nunc. Marinetti & C come punk ante litteram?
Il passo successivo, secondo Jon Savage, porta all’esaltazione del termine «giovinezza» in quei gruppi che favoriranno il diffondersi del fascismo e del nazismo, dove si recupera il significato del termine «identità nazionale» non in linea con la tradizione, ma come desiderio drammaticamente utopistico di frattura nichilista. Il racconto si fa incalzante e mentre la vecchia Europa brucia, l’America di Hollywood, di Disney e del jazz inventa nuovi modelli di consumo per una prossima era pacificata, democratica e dominata dal sogno a stelle e strisce.
«Siamo la generazione senza legami e senza profondità. La nostra profondità è l’abisso. Siamo la generazione senza felicità, senza casa e senza addii». Non sono parole di una canzone di Ian Curtis, leader dei Joy Division, ma una dichiarazione di Wolfgang Borchert, scrittore e drammaturgo tedesco morto a 27 anni nel 1947. Perdendoci nei meandri de L’invenzione dei giovani potremmo scoprire inquietanti connessioni tra passato e presente di un mondo che esiste da sempre e forse non cambierà mai.
«Il Giornale» del 15 novembre 2009
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