di Giovanni Bianconi
L'aspetto più rilevante della decisione presa ieri dal Supremo tribunale brasiliano è l'aver stabilito che Cesare Battisti non è un perseguitato politico. Lo hanno detto - seppure a maggioranza risicata, cinque a quattro - dei giudici che hanno svolto considerazioni giuridiche prima che politiche. L'ex militante dei Proletari armati per il comunismo è stato condannato al carcere a vita per omicidio plurimo e aggravato. È stato processato in Italia come migliaia di altri appartenenti al «partito armato» passati dalle nostre corti d'assise tra gli anni Settanta e Ottanta. Sulla base di leggi dette in alcuni casi «d' emergenza», ma considerate conformi allo Stato di diritto. Anche quella che prevede il giudizio in contumacia (nel caso di Battisti, peraltro, da lui stesso provocata con l'evasione). Questa è la realtà, e se all'improvviso i giudici di un Paese straniero avessero detto il contrario, si sarebbe tradotto in una sorta di discriminazione nei confronti degli altri condannati per fatti di terrorismo; che nel frattempo hanno quasi tutti scontato le pene e sono tornati liberi, ergastolani compresi (con qualche curiosa eccezione). E sarebbe stata un'ulteriore ferita inflitta alle vittime - di Battisti e del suo gruppo, ma anche di tutte le altre colpite dalla violenza eversiva - a cui lo Stato ha dato giustizia attraverso quelle sentenze. La battaglia politica sul «caso Battisti», invece, non è chiusa, e dipenderà dalle mosse del presidente Lula e del suo ministro della Giustizia che dieci mesi fa aveva concesso all' ex terrorista riparato in Brasile lo status di rifugiato politico. Ma dopo la decisione del Supremo tribunale saranno - per l'appunto - scelte non più basate sul diritto, ma su considerazioni di tutt'altro genere; e in ogni caso con un verdetto nel quale è stabilito che l'Italia ha rispettato regole e leggi. Qualcosa di simile è accaduto in Francia, cinque anni fa. Anche lì, dove Battisti s'era pubblicamente nascosto diventando uno scrittore di grido, alla fine di una lunga causa i magistrati lo avevano dichiarato estradabile. Poi, in attesa dell' esecuzione di quella sentenza, qualcuno pensò di liberarsi dell'impopolare questione lasciando che l'ex terrorista potesse scappare. Riacciuffato due anni dopo al di là dell'oceano, è cominciato il tira e molla ancora in corso. Ci si può anche chiedere se sia giusto che l'unica risposta istituzionale alla stagione del terrorismo sia, a tanti anni di distanza e dalla fine di quel fenomeno, quella giudiziaria; ma che intanto, dall'altra parte del mondo, dei giudici abbiano stabilito che quella risposta non è stata persecutoria né illegittima, per l'Italia è una buona notizia.
«Corriere della sera» del 19 novembre 2009
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