A Mosca una mostra racconta la distruzione dell’arte sacra negli anni da Lenin a Stalin
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Accecati dalla Rivoluzione russa. Sì, accecati dalla Rivoluzione e in senso tutt’altro che figurato. Sono i volti della Madonna e di Gesù della mostra aperta a Mosca, nella Dom ikony, la Casa dell’Icona. Qui in un angolo della capitale russa risparmiato dal corso della storia e dalle distruzioni bolsceviche, a fianco della bella casa Liberty che Gor’kij poco modestamente scelse come abitazione quando tornò in patria, di fronte alla Chiesa dell’Ascensione in cui si sposò il poeta Aleksandr Pushkin, le icone hanno trovato la loro casa: duemilacinquecento pezzi esposti, una sala dedicata alla storia dell’arte cristiana con rarità provenienti da Musei (uno dei ritratti di Al Fayum, tra le altre cose), laboratori per il restauro, icone delle scuole di Novgorod, Mosca ma anche della lontana provincia. Tutti coloro che vogliono ammirare le icone, vedere come si restaurano, comprendere il loro ruolo nella vita e nella cultura russa possono visitare liberamente la stupefacente Dom ikony inaugurata proprio quest’anno.
Questa settimana, poi, nel bel mezzo di una delle quattro sale, sono comparse le Icone profanate dai comunisti: la grande Madonna accecata e sfregiata con il simbolo sovietico della stella a cinque punte, il Volto di Cristo utilizzato per anni come gradino, il frammento del Giudizio Universale che per decenni è servito come divisorio in una stalla, una grande san Paolo tagliato in quattro parti per poter essere salvato da un emigrante.
La testimonianza dell’odio iconoclasta bolscevico è completata da una raccolta di volantini ispirati all’ateismo militante, avvisi di conferenze in cui «verrà dimostrato che dio non esiste» («dio» rigorosamente con la minuscola, ovviamente), festosi inviti al «rogo di massa delle icone». Il giorno dell’inaugurazione, per dare maggiore veridicità all’esposizione, alcuni ragazzini vestiti da besprizorniki («bambini di strada», un fenomeno nato con l’URSS - nel 1922 erano 7 milioni! - e proseguito anche ai nostri giorni - oggi sono calcolati in un paio di milioni) distribuivano fogli volanti di queste conquiste comuniste. Questo per simboleggiare che, perso ogni rapporto con la famiglia, i besprizorniki erano facilmente assoldati dall’Unione dei militanti senzadio, che nel 1930 arriverà a contare 5,7 milioni di iscritti.
In un angolo della sala viene continuamente proiettato un collage di riprese cinematografiche fatte dagli stessi comunisti sovietici nel corso degli anni Venti e Trenta. Sono gli anni in cui, acquisita una relativa stabilità, il potere sovietico, cioè Lenin, emana il Decreto di confisca dei beni ecclesiastici (1922) e comincia l’attività dell’ateismo «militante»: chiese distrutte, campane abbattute davanti alla folla plaudente, monasteri incendiati, parodie dei riti cristiani eseguite da finti pope sghignazzanti, bassorilievi scalpellati con cura, cittadini sovietici che si disfano delle icone domestiche da anni conservate nelle loro case, nell’angolo d’onore. Non che nei primi anni rivoluzionari la Chiesa avesse potuto prosperare: la nazionalizzazione del Monastero della Trinità di San Sergio, il centro spirituale della Russia, avvenne infatti già nel 1918, il decreto di consegna dell’ex monastero al «popolo lavoratore e sfruttato» è del 4 ottobre 1919. Però, è solo dopo il 1922 che questa operazione di pulizia ideologica dalle sopravvivenze della religione prende definitivamente slancio.
In un’altra sala sono in mostra due splendide icone-gonfaloni dell’inizio del ’900, provenienti dalla Cattedrale di Tsarskoe Selò, la residenza imperiale vicino a San Pietroburgo. È tutto quello che resta della grandiosa iconostasi fatta costruire da Nicola II, l’ultimo zar, per celebrare i trecento anni della dinastia dei Romanov. Sono scampate all’odio dei bolscevichi perché vennero barattate con un carico di grano negli anni Trenta. Ora ritornano in Russia, ma costano una fortuna e non è detto che si riescano a trovare i fondi per ricomprarle, mi dice una delle curatrici della mostra.
«Con questi atti vandalici - spiega il collezionista Aleksandr Sergeev - il potere sovietico ha distrutto i fondamenti cristiani della vita russa». La sua singolare opera di ricerca e raccolta delle testimonianze dell’odio antireligioso bolscevico prosegue ormai da alcuni anni e deve il suo inizio al consiglio del defunto patriarca Alessio II.
Un’anziana coppia che visita la mostra insieme a me chiede l’intervento di una curatrice: vogliono capire qualcosa di più di un’icona, non sanno, non ne capiscono la simbologia.
Certo, se ancora esistevano dubbi, la collezione smaschera in modo definitivo il mito dei comunisti bolscevichi come rispettosi dell’arte e delle tradizioni popolari. Accecati dalla Rivoluzione, uccisero sacerdoti, monaci e vescovi (una pubblicazione della Chiesa ortodossa in esilio in Serbia, nel 1924, contava già 8110 vittime dell’odio bolscevico tra i religiosi e gli ecclesiastici).
Dopo - fu il turno dei monasteri, delle campane, delle icone.
Questa settimana, poi, nel bel mezzo di una delle quattro sale, sono comparse le Icone profanate dai comunisti: la grande Madonna accecata e sfregiata con il simbolo sovietico della stella a cinque punte, il Volto di Cristo utilizzato per anni come gradino, il frammento del Giudizio Universale che per decenni è servito come divisorio in una stalla, una grande san Paolo tagliato in quattro parti per poter essere salvato da un emigrante.
La testimonianza dell’odio iconoclasta bolscevico è completata da una raccolta di volantini ispirati all’ateismo militante, avvisi di conferenze in cui «verrà dimostrato che dio non esiste» («dio» rigorosamente con la minuscola, ovviamente), festosi inviti al «rogo di massa delle icone». Il giorno dell’inaugurazione, per dare maggiore veridicità all’esposizione, alcuni ragazzini vestiti da besprizorniki («bambini di strada», un fenomeno nato con l’URSS - nel 1922 erano 7 milioni! - e proseguito anche ai nostri giorni - oggi sono calcolati in un paio di milioni) distribuivano fogli volanti di queste conquiste comuniste. Questo per simboleggiare che, perso ogni rapporto con la famiglia, i besprizorniki erano facilmente assoldati dall’Unione dei militanti senzadio, che nel 1930 arriverà a contare 5,7 milioni di iscritti.
In un angolo della sala viene continuamente proiettato un collage di riprese cinematografiche fatte dagli stessi comunisti sovietici nel corso degli anni Venti e Trenta. Sono gli anni in cui, acquisita una relativa stabilità, il potere sovietico, cioè Lenin, emana il Decreto di confisca dei beni ecclesiastici (1922) e comincia l’attività dell’ateismo «militante»: chiese distrutte, campane abbattute davanti alla folla plaudente, monasteri incendiati, parodie dei riti cristiani eseguite da finti pope sghignazzanti, bassorilievi scalpellati con cura, cittadini sovietici che si disfano delle icone domestiche da anni conservate nelle loro case, nell’angolo d’onore. Non che nei primi anni rivoluzionari la Chiesa avesse potuto prosperare: la nazionalizzazione del Monastero della Trinità di San Sergio, il centro spirituale della Russia, avvenne infatti già nel 1918, il decreto di consegna dell’ex monastero al «popolo lavoratore e sfruttato» è del 4 ottobre 1919. Però, è solo dopo il 1922 che questa operazione di pulizia ideologica dalle sopravvivenze della religione prende definitivamente slancio.
In un’altra sala sono in mostra due splendide icone-gonfaloni dell’inizio del ’900, provenienti dalla Cattedrale di Tsarskoe Selò, la residenza imperiale vicino a San Pietroburgo. È tutto quello che resta della grandiosa iconostasi fatta costruire da Nicola II, l’ultimo zar, per celebrare i trecento anni della dinastia dei Romanov. Sono scampate all’odio dei bolscevichi perché vennero barattate con un carico di grano negli anni Trenta. Ora ritornano in Russia, ma costano una fortuna e non è detto che si riescano a trovare i fondi per ricomprarle, mi dice una delle curatrici della mostra.
«Con questi atti vandalici - spiega il collezionista Aleksandr Sergeev - il potere sovietico ha distrutto i fondamenti cristiani della vita russa». La sua singolare opera di ricerca e raccolta delle testimonianze dell’odio antireligioso bolscevico prosegue ormai da alcuni anni e deve il suo inizio al consiglio del defunto patriarca Alessio II.
Un’anziana coppia che visita la mostra insieme a me chiede l’intervento di una curatrice: vogliono capire qualcosa di più di un’icona, non sanno, non ne capiscono la simbologia.
Certo, se ancora esistevano dubbi, la collezione smaschera in modo definitivo il mito dei comunisti bolscevichi come rispettosi dell’arte e delle tradizioni popolari. Accecati dalla Rivoluzione, uccisero sacerdoti, monaci e vescovi (una pubblicazione della Chiesa ortodossa in esilio in Serbia, nel 1924, contava già 8110 vittime dell’odio bolscevico tra i religiosi e gli ecclesiastici).
Dopo - fu il turno dei monasteri, delle campane, delle icone.
«Il Giornale» del 25 novembre 2009
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