di Andrea Lavazza
Audace, irriverente, scandalosa. La casa ridotta a magazzino, ma originale nel suo disordine. Dissacrante e trasgressiva, eppure anima candida e straordinariamente buona. L’attenzione che spesso scemava anche di fronte all’ospite, con lo sguardo malinconico perso lontano, in chissà quale pensiero. Poi, improvvisamente cambiava tono ed espressione, e dalla sua bocca usciva, senza sforzo, la pura poesia, dettata nell’improvviso sgorgare all’interlocutore di turno. Così Lucia Bellaspiga ricordava su «Avvenire» Alda Merini, l’artista fuori da ogni regola, già candidata al Nobel per la Letteratura. Dodici anni di manicomio, cure con l’elettrochoc quando la terapia non era ancora somministrata con le dovute cautele e precauzioni, l’amata poetessa milanese recentemente scomparsa non nascondeva la malattia mentale che per tanto tempo l’aveva tormentata, facendole perdere anche l’affidamento delle figlie. Eppure, come già i critici hanno riconosciuto, la sua «pazzia» era anche una fonte di ispirazione interiore. Ciò che oggi anche psicologi e neuroscienziati cominciano a comprendere più a fondo. In uno studio appena pubblicato – assai speculativo, ma basato su una vasta letteratura scientifica – Keith Simonton, uno dei massimi studiosi della creatività, ipotizza che gli scienziati più innovativi – in una supposta gerarchia delle discipline, dalla fisica alla sociologia – siano coloro che hanno alcune disposizioni più affini al gruppo immediatamente inferiore. In generale, quindi, un chimico creativo è più originale, meno convenzionale, più impulsivo, meno inibito, meno formale e più portato a seguire le inclinazioni soggettive rispetto ai suoi colleghi meno 'fantasiosi', più simile, insomma, all’impostazione generale media dei biologi. All’ultimo gradino dell’«ordinamento» stanno i poeti, i quali – secondo Simonton – al massimo livello di creatività assomiglierebbero allo stile mentale sottostante, quello della psicosi. E, in effetti, si contano numerosi casi di autori con personalità border line o apertamente disturbate, come documentato da Arnold Ludwig, autore del «Prezzo della grandezza», una ricerca sul legame tra creatività e follia. Si situano in questo filone anche ricerche che hanno mostrato come gli studenti più creativi nella loro produzione (racconti, canzoni) abbiano ridotta «inibizione latente» nei test psicologici standard rispetto ai compagni. L’inibizione latente è una sorta di filtro che permette al cervello di selezionare e bloccare l’informazione valutata dall’esperienza meno rilevante nella massa di dati che, ogni secondo, affluiscono al cervello attraverso il sistema sensoriale.
Tale informazione è scartata ancora prima che arrivi alla coscienza. Si evita così un aggravio della capacità di elaborazione; i dati restano però indisponibili ai processi di pensiero. Ma dato che la creatività dipende in primo luogo dall’abilità a integrare parti di informazioni disparate in maniera innovativa, un basso livello di inibizione latente può risultare utile: va bene filtrare una parte degli input del mondo esterno, ma non troppi. D’altra parte, un sovraccarico d’informazione si dimostra ingestibile e dannoso: una bassa inibizione latente, infatti, è spesso associata a forme psicotiche.
Quasi che tra un certo grado di «follia» e ispirazione vi sia una relazione diretta. Il prezzo della grandezza, appunto.
Tale informazione è scartata ancora prima che arrivi alla coscienza. Si evita così un aggravio della capacità di elaborazione; i dati restano però indisponibili ai processi di pensiero. Ma dato che la creatività dipende in primo luogo dall’abilità a integrare parti di informazioni disparate in maniera innovativa, un basso livello di inibizione latente può risultare utile: va bene filtrare una parte degli input del mondo esterno, ma non troppi. D’altra parte, un sovraccarico d’informazione si dimostra ingestibile e dannoso: una bassa inibizione latente, infatti, è spesso associata a forme psicotiche.
Quasi che tra un certo grado di «follia» e ispirazione vi sia una relazione diretta. Il prezzo della grandezza, appunto.
«Avvenire» del 14 novembre 2009
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