16 novembre 2009

Da Pennach a Schmitt, senza spirito di bambino non è vera letteratura

Quando nel 1958 pubblica La Pastorale dei Santon di Provenza , Yvan Audouard è tutto fuorché un baciapile. In seguito farà l’insegnante d’inglese, l’umorista, il dialogista e l’autore di una ventina di film
di Roger Bichelberger
Dichiarava che la Pastorale gli avrebbe fatto meritare il cielo, a lui miscredente che aveva fatto dire al cieco, in risposta alla Vergine che implorava il divin Bambino di guarirlo: «No, Buona Madre, non vale la pena. Non lo disturbi. So che il mondo è bello perché l’ha fatto lui, ma sono sicuro che il cielo è ancora più bello perché lui vi abita. Mi faccia aprire gli occhi il giorno della morte, mi faccia vedere quando davvero varrà la pena vedere».
Un cuore di bambino, questo cieco! Per concepirlo, l’Estasiato e gli altri sedici Santon (statuine del presepe provenzale, Ndt), l’autore avrà avuto bisogno di un momento di grazia, di un’irruzione di quel che si chiama spirito d’infanzia.
Per chi s’interessa di etimologia, infans in latino, o puer , o meglio infans puer, «colui che non parla», il bambino appare al tempo stesso impotente e fiducioso, fragile, affidato alla benevolenza altrui, come se s’abbandonasse.
Ma lo spirito del bambino non è anche lo spirito d’accoglienza di chi, non avendo nulla, può solo ricevere? Non è spirito di riconoscenza per tutti i beni che lo ricolmano? Spirito di meraviglia di fronte a ciò che è nuovo ai suoi occhi? Spirito di ammirazione che fa gridare di gioia? Senza dimenticare lo spirito d’immaginazione e d’innocenza, lo spirito di chi non sa nuocere perché del male ignora tutto e ha il cuore puro Davvero non c’è letteratura degna di questo nome senza spirito di bambino. Mai, senza tale spirito, Bernanos avrebbe scritto la Nuova storia di Mouchette, Michel del Castillo Tanguy, Ernst Wiechert I figli Jeromin, Louis Pergaud La guerra dei bottoni, Daniel Pennac Diario di scuola o Philippe Claudel Rapport de Brodeck . Dovrei citare anche Dostoevskij e Mauriac, Modiano ed Éric-Emmanuel Schmitt e molti altri.
Se il romanziere non è tutto accoglienza davanti alla vita che arriva, se non trabocca di riconoscenza per quello che gli tocca in sorte, se non è capace di meravigliarsi davanti a quanto la natura gli offre, se non sa ammirare con tutto il cuore, abbandonarsi pieno di fiducia a quella misteriosa ispirazione che dietro la spalla gli suggerisce cosa scrivere, se non si lascia andare alla più folle delle immaginazioni creatrici e alla gioia delle parole, non sarà romanziere.
Semplicemente.
E se, contaminato dal mondo degli adulti in cui vive, il romanziere non riesce a recuperare il proprio cuore di bambino, gli si può solo augurare d’essere attraversato, di tanto in tanto, da scoppi d’infanzia che gli permettano d’avvicinarsi all’altra riva, appena un po’ sopra (o sotto) la nostra riva quotidiana, da dove tornerà con quelle pagine luminose che costruiranno l’opera. Poiché l’opera non ammette menzogna, non tollera calcolo, non sopporta tiepidezza. Si abbandona tutta come il bambino, si consegna solo all’amore. A quell’amore di cui solo è capace chi abbia conservato un cuore di bambino.
(traduzione di Anna Maria Brogi)
«Avvenire» del 15 novembre 2009

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