Saggio sulle tecniche narrative
di Paolo Di Stefano
Parazzoli: conta il marchio, non il valore dell’opera
Inventare un mondo, inventare l’altro mondo, che è quello della letteratura. In realtà, il titolo del nuovo libro di Ferruccio Parazzoli è Inventare il mondo (Garzanti, pp. 135, e 14). Un saggio a suo modo — con il sottotitolo «Teoria e pratica del racconto» — che non parla solo di tecniche narrative ma che è un percorso dentro le passioni di lettura di uno scrittore più che di uno studioso. Quindi, saggio a suo modo, testimonianza, racconto, a sua volta, di tanti incontri immaginari con i grandi autori: Dostoevskij, Flaubert, Tolstoj, Proust, Kafka, Céline, Beckett, Joyce, Hemingway, Ingeborg Bachmann, Kawabata e tanti altri. Non tutti ovvi, come sarebbe in un qualunque manuale di scrittura: qui ci sono anche Fruttero & Lucentini, Pontiggia, Moresco, Pincio, Saviano e persino Moccia e Melissa P. Senza puzze sotto il naso da accademici. «Perché — dice Parazzoli, seduto sul divano della sua casa milanese, che guarda dall’alto piazzale Loreto — la ripercussione, dai narratori che hanno fatto scuola, arriva fino a oggi ».
Il tutto per accompagnare il lettore (ma anche l’aspirante scrittore) nella creazione letteraria, nel sottile rapporto tra realtà e linguaggio, tra cronaca e narrazione, tra mondo reale e mondo immaginato. Romano di 74 anni, lunga carriera alla Mondadori come responsabile degli Oscar, autore di una decina di romanzi (ultimo Il tribunale dei bambini ), oltre che di indagini di argomento religioso, Parazzoli spazia con generosità nel fare letteratura, dando consigli a proposito del tabù della pagina bianca, della scansione, delle tonalità e dei ritmi narrativi, soffermandosi sui generi letterari, sulla posizione dell’io narrante nel racconto, sui dialoghi, sugli «attimi di verità» che si possono trarre dalla cronaca.
Già, come si usa la cronaca? «La cronaca, come i sentimenti, può essere utilizzata come strumento di arredamento: spesso i giallisti sbagliano, perché prendono un intreccio della realtà e lo travasano nella narrazione in modo orizzontale, facendone una pura questione di ricostruzione poliziesca degli eventi. È una paraletteratura bestselleristica mascherata da letteratura. Invece la cronaca può assumere una dimensione verticale, variare dall’abissale al sublime, acquisire un valore esistenziale ». E come si fa a distinguere l’orizzontale dal verticale? «La Bachmann individua nell’uso del linguaggio l’inevitabilità dello scrittore. La lingua, per uno scrittore, non è mai ovvia, scontata: la lingua dei gialli da classifica è morbida, penetrabile, adatta al mercato e al lettore debole, che vuole essere consolato o eccitato. Il lettore vero cerca nella letteratura un mezzo per decifrare il mondo e battersi contro il caos».
Il racconto, dice Parazzoli, nasce da uno «stato di tensione», da una concentrazione di energie. Questa tensione, che forse appartiene più alla vita che alla letteratura, precede le preoccupazioni strutturali. Il «brusio del mondo» è l’humus da cui germoglia l’opera letteraria. I consigli pratici di Parazzoli sono preziosi: dal bloc notes per gli appunti alla prima fase della scrittura, che serve a dar sfogo a quella prima energia, ai vari modi possibili «di attaccarsi al treno che corre» (l’ispirazione, diciamo). Una scaletta? «Oggi si sente forte la necessità di avere una specie di concept da cui si sviluppa la trama, ma quando nel pensiero di chi scrive subentrano le richieste dell’editoria, si parte male. L’editoria oggi vuole dei bollini da marketing, un marchio riconoscibile da vendere: vuole la violenza o il sublime, l’aggancio alla realtà o il suo opposto, la trama forte eccetera. L’idea, piccola o immensa, da cui nasce un’opera letteraria scatta invece nel punto esatto in cui la linea orizzontale dell’esperienza interseca quella verticale dell’arte. Per Pavese è il ronzio della mosca dentro a un bicchiere...». Quella che una volta si chiamava ispirazione: «Sì, oggi è una parola out, che nessuno osa più pronunciare, un moto sentimentale che ti spinge a scrivere e ti conduce dove vuole. Purché non sia il piccolo patema individuale... » .
L’editoria chiede più paraletteratura che letteratura? È così? «Una volta nell’editoria c’era il direttore letterario che non doveva rispondere a nessuno. Oggi il direttore letterario è anche direttore editoriale: non giudica più sulla base del valore ma sulle richieste del marketing. Il suo giudizio non è letterario ma editoriale e attiene alla vendibilità e alle possibilità di essere visibili nei mass media. Così succede che piove sempre sul bagnato: i libri si pubblicano se danno la garanzia di poter approdare alla televisione e quando si pubblicano si sa già che andranno sicuramente in tv».
E gli altri? «Gli altri magari escono ma sono destinati all’oblio». Parazzoli distingue tra scrittore-sciamano («un medium che va cercando a tentoni, può piacerti o no, ma ti segna irrimediabilmente»), scrittore-giullare («quello che intrattiene il pubblico, oggi è il caso più frequente») e scrittore- homo faber («che è scomparso, perché aveva a che fare con un’ideologia, diciamo un po’ alla Vittorini»). Qualcuno accusa le scuole di scrittura di produrre solo autori-intrattenitori, pronti per il mercato. Parazzoli ci crede, ai corsi creativi? «Se uno non ha talento, si può divertire, ma tutto finisce lì. Se il talento c’è, lo si può indirizzare e mettere a frutto: ma il compito di un corso di scrittura è far capire l’utilità della lettura e anche dell’imitazione, cogliere i trucchi del mestiere, far capire che anche uno scrittore di talento deve lavorare, lavorare, lavorare ».
Il tutto per accompagnare il lettore (ma anche l’aspirante scrittore) nella creazione letteraria, nel sottile rapporto tra realtà e linguaggio, tra cronaca e narrazione, tra mondo reale e mondo immaginato. Romano di 74 anni, lunga carriera alla Mondadori come responsabile degli Oscar, autore di una decina di romanzi (ultimo Il tribunale dei bambini ), oltre che di indagini di argomento religioso, Parazzoli spazia con generosità nel fare letteratura, dando consigli a proposito del tabù della pagina bianca, della scansione, delle tonalità e dei ritmi narrativi, soffermandosi sui generi letterari, sulla posizione dell’io narrante nel racconto, sui dialoghi, sugli «attimi di verità» che si possono trarre dalla cronaca.
Già, come si usa la cronaca? «La cronaca, come i sentimenti, può essere utilizzata come strumento di arredamento: spesso i giallisti sbagliano, perché prendono un intreccio della realtà e lo travasano nella narrazione in modo orizzontale, facendone una pura questione di ricostruzione poliziesca degli eventi. È una paraletteratura bestselleristica mascherata da letteratura. Invece la cronaca può assumere una dimensione verticale, variare dall’abissale al sublime, acquisire un valore esistenziale ». E come si fa a distinguere l’orizzontale dal verticale? «La Bachmann individua nell’uso del linguaggio l’inevitabilità dello scrittore. La lingua, per uno scrittore, non è mai ovvia, scontata: la lingua dei gialli da classifica è morbida, penetrabile, adatta al mercato e al lettore debole, che vuole essere consolato o eccitato. Il lettore vero cerca nella letteratura un mezzo per decifrare il mondo e battersi contro il caos».
Il racconto, dice Parazzoli, nasce da uno «stato di tensione», da una concentrazione di energie. Questa tensione, che forse appartiene più alla vita che alla letteratura, precede le preoccupazioni strutturali. Il «brusio del mondo» è l’humus da cui germoglia l’opera letteraria. I consigli pratici di Parazzoli sono preziosi: dal bloc notes per gli appunti alla prima fase della scrittura, che serve a dar sfogo a quella prima energia, ai vari modi possibili «di attaccarsi al treno che corre» (l’ispirazione, diciamo). Una scaletta? «Oggi si sente forte la necessità di avere una specie di concept da cui si sviluppa la trama, ma quando nel pensiero di chi scrive subentrano le richieste dell’editoria, si parte male. L’editoria oggi vuole dei bollini da marketing, un marchio riconoscibile da vendere: vuole la violenza o il sublime, l’aggancio alla realtà o il suo opposto, la trama forte eccetera. L’idea, piccola o immensa, da cui nasce un’opera letteraria scatta invece nel punto esatto in cui la linea orizzontale dell’esperienza interseca quella verticale dell’arte. Per Pavese è il ronzio della mosca dentro a un bicchiere...». Quella che una volta si chiamava ispirazione: «Sì, oggi è una parola out, che nessuno osa più pronunciare, un moto sentimentale che ti spinge a scrivere e ti conduce dove vuole. Purché non sia il piccolo patema individuale... » .
L’editoria chiede più paraletteratura che letteratura? È così? «Una volta nell’editoria c’era il direttore letterario che non doveva rispondere a nessuno. Oggi il direttore letterario è anche direttore editoriale: non giudica più sulla base del valore ma sulle richieste del marketing. Il suo giudizio non è letterario ma editoriale e attiene alla vendibilità e alle possibilità di essere visibili nei mass media. Così succede che piove sempre sul bagnato: i libri si pubblicano se danno la garanzia di poter approdare alla televisione e quando si pubblicano si sa già che andranno sicuramente in tv».
E gli altri? «Gli altri magari escono ma sono destinati all’oblio». Parazzoli distingue tra scrittore-sciamano («un medium che va cercando a tentoni, può piacerti o no, ma ti segna irrimediabilmente»), scrittore-giullare («quello che intrattiene il pubblico, oggi è il caso più frequente») e scrittore- homo faber («che è scomparso, perché aveva a che fare con un’ideologia, diciamo un po’ alla Vittorini»). Qualcuno accusa le scuole di scrittura di produrre solo autori-intrattenitori, pronti per il mercato. Parazzoli ci crede, ai corsi creativi? «Se uno non ha talento, si può divertire, ma tutto finisce lì. Se il talento c’è, lo si può indirizzare e mettere a frutto: ma il compito di un corso di scrittura è far capire l’utilità della lettura e anche dell’imitazione, cogliere i trucchi del mestiere, far capire che anche uno scrittore di talento deve lavorare, lavorare, lavorare ».
«Corriere della sera» del 23 novembre 2009
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