Il giuoco delle parti - Commedia in tre atti - 1918
RIASSUNTO
RIASSUNTO
Il giuoco delle parti, che Pirandello compose tra il luglio e il settembre 1918, traendolo dalla novella Quando s'è capito il giuoco (1913), andò in scena il successivo 6 dicembre, al Teatro Quirino di Roma, con Ruggero Ruggeri (Leone Gala), Vera Vergani (Silia), Amilcare Pettinelli (Guido Venanzi). Dopo un'anticipazione (terza scena del secondo atto) su « Il Messaggero della Domenica» dell'8 dicembre 1918, il testo fu pubblicato sulla «Nuova Antologia».
Il primo atto della commedia è ambientato nel salotto della casa di Silia, di sera. Silia, moglie separata di Leone Gala, discute con Guido Venanzi, suo amante e amico del marito, della propria insoddisfazione di donna che vorrebbe vivere senza vedersi nel «maledetto specchio che sono gli occhi degli altri», dal quale si sente rinchiusa - come anche da se stessa - «in una carcere» soffocante. Questo sentimento di paralisi, che Leone le fa vivere come prova dell'impossibilità di una vera libertà, è invece per lei, che non ne ha la necessaria consapevolezza, un «incubo» vissuto per colpa del marito.
Leone Gala, giunto poco dopo in visita, illustra al Venanzi una concezione della vita che, in antinomia con quella di Silia, si fonda sul vedersi vivere e non attribuisce la colpa a nessuno se non alla vita stessa, ai fatti che diventano per tutti una prigione; un fatto è anche il matrimonio : «la parte assegnatami da un fatto che non si può distruggere, resta: sono il marito». Leone rivela a Guido che, dopo aver «molto sofferto», egli ha «capito il giuoco» della vita e ha trovato «il rimedio per salvarsi», per difendersi «dal male che la vita fa a tutti, inevitabilmente»: non vivere più, vuotarsi della vita - come si vuota un uovo - per guardarla «da fuori» e godersene lo spettacolo , trovando, nel contempo, un perno a cui fissarsi per «restare in piedi come quei buffi giocattoli, che tu puoi buttar come vuoi: ti restan sempre ritti per il loro contrappeso di piombo».
Andato via Leone, Silia, esasperata, ne fantastica l'omicidio, e poco dopo coglie l'occasione che le si presenta di realizzarlo - per di più nel rispetto delle convenzioni - quando alcuni giovinastri ubriachi irrompono in casa, convinti di entrare nel bordello dell'appattamento a fianco e, dunque, di trovarsi al cospetto della prostituta Pepita. Silia ride dell'equivoco; poi, per «una diabolica idea», decide di recitare la parte (che ella legge nello sguardo eccitato degli uomini) di donna fatale, amante e prostituta. Silia si finge Pepita e, alle prime esplicite avances di Aldo Miglioriti, noto spadaccino - mentre Venanzi, nella stanza a fianco, tarda a intervenire -, dapprima placa i giovani, poi chiude a chiave il Venanzi e, davanti ai vicini fatti accorrere, fingendo l'indignazione «d'una signora per bene» e respingendo le accorate richieste di perdono dei giovani, esige una riparazione cavalleresca dello scandalo. Silia intende così costringere il marito a battersi in duello.
Il secondo atto si trasferisce in casa di Leone , in una «strana sala da pranzo e da studio» dove egli soddisfa i bisogni dello spirito e del corpo. Poco dopo l'arrivo di Guido - che, incerto tra la parte di amante e di amico , vuole prevenire Leone - sopraggiunge Silia. Le schermaglie dialettiche fra i tre confermano il loro gioco delle parti che essi avrebbero più volte occasione, invece, di smascherare. Leone accetta di sfidare Miglioriti; Guido di fare da padrino: successivamente, violando il codice cavalleresco e gettando la maschera dell'amico, egli impedirà ogni accomodamento e pattuirà un duello all'ultimo sangue.
Silia, indispettita dal comportamento di Guido, in preda al rimorso, sorpresa e ammirata dal coraggio del marito ma esasperata dalla sua consueta e inattaccabile indifferenza, rimane sola con lui. Leone si tiene fisso alla sua maschera di freddo ragionatore, una parte che egli recita anche con se stesso e che gli dà il coraggio («non già davanti a un uomo, che è nulla; ma davanti a tutti e sempre»), la forza di soggiogare passioni e istinti quando insorgono, come fa con «le belve il domatore nei serragli». A Silia che, sospettando in lui una minore indifferenza nei suoi confronti, cerca di fissarsi al perno del suo ruolo di donna e gli propone di passare la notte insieme, Leone oppone un rifiuto che ribadisce la forza della sua leonina indifferenza.
Il terzo atto inizia all'alba del giorno dopo con l'arrivo del dottor Spiga e, poi, dei padrini Venanzi e Barelli, accolti dal servitore Filippo mentre Leone ancora dorme. Svegliato e rimproverato per il ritardo, Leone svela il piano messo in atto «perfettamente secondo il giuoco delle parti»: a lui, come marito, spettava il compito formale della sfida, mentre quello di battersi in duello spetta ora a Venanzi. Dietro la maschera del marito riappare così il volto (la più profonda maschera) del ragionatore svuotato d'ogni passione, che ride delle regole dell'onore cavalleresco, del duello, del coraggio. Barelli, che aveva prima ammirato l'audacia di Leone, ora lo accusa di cinismo; Guido accetta, infine, la parte assegnatagli dai fatti. Al primo smascheramento di Leone ne segue un secondo, più profondo, quando sopraggiunge Silia alla quale Leone rivela il volto, i gesti e le parole delle passioni in lui nuovamente insorte: l'intento vendicativo, punitivo, del disonore già subito. Mentre Silia fugge prevedendo la morte di Guido, Filippo serve la colazione, ma Leone, assorto, «non si muove».
«Chi ha capito il giuoco non riesce più a ingannarsi; non può più prendere né gusto né piacere alla vita», scriveva Pirandello in una lettera a Filippo Surico, in forma di autoritratto, tra il 1912 e il 1913. Leone Gala è la più compiuta incarnazione del personaggio che ha capito il gioco, del ragionatore che realizza la poetica de L'umorismo, basata sul riconoscimento e sullo smascheramento delle finzioni sociali e personali. «Il sistema delle relazioni sociali e familiari è contemporaneamente accettato, cioè recitato, e rifiutato con un sistema di segnali di un'altra recita sotterranea. Se la prima recita ha un vincitore e un vinto: Leone Gala che punisce la moglie attraverso l'amante, la seconda non ha vincitori: a Silia che fugge terrorizzata corrisponde l'immobilità di Leone, segno del suo non procedere, non muoversi, non vivere» (Franca Angelini). Va aggiunto, a sottolineare la complessa ambiguità del testo, che il gioco delle parti è duplice (davanti agli altri e davanti a se stessi) e che all'umorismo del personaggio filosofo, alter ego dell'autore, si aggiunge l'umorismo della rappresentazione: il gioco condotto da Pirandello con il teatro a lui contemporaneo, evidente fin dal titolo, analogo a quello che Leone rappresenta con l'immagine dell'uovo. Pirandello svuota dalle passioni il teatro borghese basato su triangoli onori traditi, duelli; e gioca con il guscio vuoto delle parti, dei ruoli di amante, moglie, marito (e di padre e madre), con un'allusiva ambiguità oscillante tra convenzionalità e profonda sfida a essa, sia sul piano teatrale sia su quello sociale.
Il primo atto della commedia è ambientato nel salotto della casa di Silia, di sera. Silia, moglie separata di Leone Gala, discute con Guido Venanzi, suo amante e amico del marito, della propria insoddisfazione di donna che vorrebbe vivere senza vedersi nel «maledetto specchio che sono gli occhi degli altri», dal quale si sente rinchiusa - come anche da se stessa - «in una carcere» soffocante. Questo sentimento di paralisi, che Leone le fa vivere come prova dell'impossibilità di una vera libertà, è invece per lei, che non ne ha la necessaria consapevolezza, un «incubo» vissuto per colpa del marito.
Leone Gala, giunto poco dopo in visita, illustra al Venanzi una concezione della vita che, in antinomia con quella di Silia, si fonda sul vedersi vivere e non attribuisce la colpa a nessuno se non alla vita stessa, ai fatti che diventano per tutti una prigione; un fatto è anche il matrimonio : «la parte assegnatami da un fatto che non si può distruggere, resta: sono il marito». Leone rivela a Guido che, dopo aver «molto sofferto», egli ha «capito il giuoco» della vita e ha trovato «il rimedio per salvarsi», per difendersi «dal male che la vita fa a tutti, inevitabilmente»: non vivere più, vuotarsi della vita - come si vuota un uovo - per guardarla «da fuori» e godersene lo spettacolo , trovando, nel contempo, un perno a cui fissarsi per «restare in piedi come quei buffi giocattoli, che tu puoi buttar come vuoi: ti restan sempre ritti per il loro contrappeso di piombo».
Andato via Leone, Silia, esasperata, ne fantastica l'omicidio, e poco dopo coglie l'occasione che le si presenta di realizzarlo - per di più nel rispetto delle convenzioni - quando alcuni giovinastri ubriachi irrompono in casa, convinti di entrare nel bordello dell'appattamento a fianco e, dunque, di trovarsi al cospetto della prostituta Pepita. Silia ride dell'equivoco; poi, per «una diabolica idea», decide di recitare la parte (che ella legge nello sguardo eccitato degli uomini) di donna fatale, amante e prostituta. Silia si finge Pepita e, alle prime esplicite avances di Aldo Miglioriti, noto spadaccino - mentre Venanzi, nella stanza a fianco, tarda a intervenire -, dapprima placa i giovani, poi chiude a chiave il Venanzi e, davanti ai vicini fatti accorrere, fingendo l'indignazione «d'una signora per bene» e respingendo le accorate richieste di perdono dei giovani, esige una riparazione cavalleresca dello scandalo. Silia intende così costringere il marito a battersi in duello.
Il secondo atto si trasferisce in casa di Leone , in una «strana sala da pranzo e da studio» dove egli soddisfa i bisogni dello spirito e del corpo. Poco dopo l'arrivo di Guido - che, incerto tra la parte di amante e di amico , vuole prevenire Leone - sopraggiunge Silia. Le schermaglie dialettiche fra i tre confermano il loro gioco delle parti che essi avrebbero più volte occasione, invece, di smascherare. Leone accetta di sfidare Miglioriti; Guido di fare da padrino: successivamente, violando il codice cavalleresco e gettando la maschera dell'amico, egli impedirà ogni accomodamento e pattuirà un duello all'ultimo sangue.
Silia, indispettita dal comportamento di Guido, in preda al rimorso, sorpresa e ammirata dal coraggio del marito ma esasperata dalla sua consueta e inattaccabile indifferenza, rimane sola con lui. Leone si tiene fisso alla sua maschera di freddo ragionatore, una parte che egli recita anche con se stesso e che gli dà il coraggio («non già davanti a un uomo, che è nulla; ma davanti a tutti e sempre»), la forza di soggiogare passioni e istinti quando insorgono, come fa con «le belve il domatore nei serragli». A Silia che, sospettando in lui una minore indifferenza nei suoi confronti, cerca di fissarsi al perno del suo ruolo di donna e gli propone di passare la notte insieme, Leone oppone un rifiuto che ribadisce la forza della sua leonina indifferenza.
Il terzo atto inizia all'alba del giorno dopo con l'arrivo del dottor Spiga e, poi, dei padrini Venanzi e Barelli, accolti dal servitore Filippo mentre Leone ancora dorme. Svegliato e rimproverato per il ritardo, Leone svela il piano messo in atto «perfettamente secondo il giuoco delle parti»: a lui, come marito, spettava il compito formale della sfida, mentre quello di battersi in duello spetta ora a Venanzi. Dietro la maschera del marito riappare così il volto (la più profonda maschera) del ragionatore svuotato d'ogni passione, che ride delle regole dell'onore cavalleresco, del duello, del coraggio. Barelli, che aveva prima ammirato l'audacia di Leone, ora lo accusa di cinismo; Guido accetta, infine, la parte assegnatagli dai fatti. Al primo smascheramento di Leone ne segue un secondo, più profondo, quando sopraggiunge Silia alla quale Leone rivela il volto, i gesti e le parole delle passioni in lui nuovamente insorte: l'intento vendicativo, punitivo, del disonore già subito. Mentre Silia fugge prevedendo la morte di Guido, Filippo serve la colazione, ma Leone, assorto, «non si muove».
«Chi ha capito il giuoco non riesce più a ingannarsi; non può più prendere né gusto né piacere alla vita», scriveva Pirandello in una lettera a Filippo Surico, in forma di autoritratto, tra il 1912 e il 1913. Leone Gala è la più compiuta incarnazione del personaggio che ha capito il gioco, del ragionatore che realizza la poetica de L'umorismo, basata sul riconoscimento e sullo smascheramento delle finzioni sociali e personali. «Il sistema delle relazioni sociali e familiari è contemporaneamente accettato, cioè recitato, e rifiutato con un sistema di segnali di un'altra recita sotterranea. Se la prima recita ha un vincitore e un vinto: Leone Gala che punisce la moglie attraverso l'amante, la seconda non ha vincitori: a Silia che fugge terrorizzata corrisponde l'immobilità di Leone, segno del suo non procedere, non muoversi, non vivere» (Franca Angelini). Va aggiunto, a sottolineare la complessa ambiguità del testo, che il gioco delle parti è duplice (davanti agli altri e davanti a se stessi) e che all'umorismo del personaggio filosofo, alter ego dell'autore, si aggiunge l'umorismo della rappresentazione: il gioco condotto da Pirandello con il teatro a lui contemporaneo, evidente fin dal titolo, analogo a quello che Leone rappresenta con l'immagine dell'uovo. Pirandello svuota dalle passioni il teatro borghese basato su triangoli onori traditi, duelli; e gioca con il guscio vuoto delle parti, dei ruoli di amante, moglie, marito (e di padre e madre), con un'allusiva ambiguità oscillante tra convenzionalità e profonda sfida a essa, sia sul piano teatrale sia su quello sociale.
Mio post del 28 novembre 2009
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