13 novembre 2009

"Io, mio padre e gli eroi sconfitti di Prima Linea"

Col figlio del giudice Alessandrini al film su Segio. «Superficiale come lo erano gli assassini di papà»
di Mario Calabresi
Quella mattina di trent’anni fa Marco l’ha dimenticata da tempo. La mattina che ha cambiato la sua vita forse non l’ha mai ricordata, cancellata subito dal dolore. Ieri l’ha rivissuta due volte: ha visto un bambino con la cartella blu sulle spalle scendere da una Renault 5 arancione, ha visto un uomo che solo vagamente somigliava a suo padre, il giudice Emilio Alessandrini, accompagnarlo fino al cancello della scuola e piegarsi per baciarlo. Lo ha visto risalire sull’auto e dirigersi verso l’incrocio dove lo avrebbero ammazzato.
Ma la prima scena raccontava solo il pedinamento e non ha dovuto assistere all’omicidio. Marco per un attimo ha tirato un sospiro di sollievo, anche se sapeva che la storia non può cambiare, così si è messo a guardare l’orologio in continuazione aspettando che la scena si ripetesse ed è sbottato: «Ma è di una lentezza esasperante».
Poi ha visto il bambino che lo impersonava scendere di nuovo dalla macchina e si è irrigidito aspettando che Sergio Segio e Marco Donat-Cattin cominciassero a sparare, mettessero fine alla vita di uno dei magistrati migliori che Milano abbia mai avuto.
Intorno a noi non c’era nessuno. Soli, io e Marco, in un cinema deserto di Torino, all’ora di pranzo per vedere il film sulla storia del gruppo terroristico «Prima Linea», tratto dal libro «Miccia corta» di Segio.
Mentre entravamo Marco cercava di sigillarsi al dolore, ripetendomi: «E’ una fiction, si tratta solo di una fiction». Aveva preso l’aereo da Pescara, la città di suo padre in cui si è rifugiato con la madre subito dopo i funerali, per venire a vedere quella pellicola che da mesi è accompagnata dalle polemiche. «Il produttore mi aveva mandato la sceneggiatura da leggere, prima che cominciassero a girare, per avere un mio parere. Ma non ero riuscito a immaginare niente e non ho voluto dire nulla. Non volevo mettermi nella posizione di un giudice. Ci si può astenere nei processi veri, figuriamoci in un caso come questo. Così sono stato zitto».
E zitto è rimasto a lungo, anche quando la proiezione di «La Prima Linea» è terminata e ci siamo messi a camminare verso l’uscita. Poi ha cominciato ad elencare le mancanze, le licenze artistiche, a commentare i dettagli. Tutto con molto garbo e con un linguaggio forbito che lo fa sembrare più grande dei suoi 38 anni. E’ un avvocato, oggi anche consigliere comunale del Partito democratico a Pescara. Solo tre ore dopo, prima di partire per Trento dove deve partecipare all’intitolazione di un’aula del palazzo di giustizia a suo padre, si è lasciato andare: «Diciamo la verità: è un film superficiale, come superficiali erano quei terroristi degli Anni Settanta. Perdonami la franchezza: erano dei deficienti, degli idioti in senso tecnico che giocavano alla guerra. Solo noi sappiamo quanto devastanti sono state le conseguenze dei loro gesti irresponsabili».
L’omicidio del giudice Alessandrini, avvenuto il 29 gennaio 1979, è il punto di svolta del film e della storia di sangue del gruppo terroristico «Prima Linea», perché gli fece perdere qualunque sostegno e solidarietà esterna, anche se la pellicola gira intorno all’ultima azione di Segio: l’assalto al carcere di Rovigo per far evadere la sua compagna Susanna Ronconi.
Proprio ieri Segio ha preso le distanze dal film, pur riconoscendogli «un’iniziale intenzione coraggiosa»: l’aver scelto di raccontare la storia da un punto di vista interno alla lotta armata, «dal punto di vista dei vinti». Ma poi accusa la pellicola di non aver spiegato in quale contesto sia nato il terrorismo, di non aver messo l’accento sugli «apparati statali compromessi, sullo stragismo». Eppure il film ricostruisce la storia mettendo in fila le stragi da Piazza Fontana (1969) fino al treno Italicus (1974), passando per la strage della questura di Milano e di Piazza della Loggia, come se il terrorismo rosso sia stato soltanto una reazione e non covasse da lungo tempo. Come se tra questi episodi non si fosse già cominciato ad ammazzare: il commissario Luigi Calabresi, mio padre, a Milano nel 1972, o i due esponenti del Msi Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola a Padova nel giugno del 1974.
Del commando delle Brigate Rosse che giustiziò questi ultimi due faceva parte proprio la Ronconi. Avevo chiesto a Silvia, la figlia di Giralucci che fa la giornalista e ha anche lei 38 anni, se voleva vedere la pellicola, ma era impegnata con il suo di film. Non si è per nulla scandalizzata per l’uscita di «La Prima Linea»: «E’ giusto raccontare il terrorismo con un linguaggio universale, capace di arrivare anche ai giovani». Per questo sta girando un documentario su Padova alla fine degli Anni Settanta, sulle «notti di fuoco» che sconvolsero la città, sull’Autonomia Operaia e il processo 7 aprile.
«Forse se Segio non fosse stato interpretato da Scamarcio e la sua compagna terrorista, Susanna Ronconi, da Giovanna Mezzogiorno - sussurra Marco mentre i due stanno facendo l’amore dopo aver appoggiato la pistola sul tavolo - questo film sarebbe passato sotto silenzio. Invece regala a quei due un’aria romantica che onestamente non meriterebbero».
Ho provato ad immaginare un ragazzo di vent’anni che vede il film e sente pronunciare queste parole da Giovanna Mezzogiorno che rivendica la scelta del terrorismo: «Non sogno mai che vinciamo, ma lo faccio perché è tutto sbagliato, capovolto. I padroni sono sempre più padroni, le persone stanno male come prima e le teste continuano ad essere schiacciate dal potere». E poi il ragazzo di oggi vede quelli di allora fare il gesto della P38, alzare le chiavi inglesi, tirare fuori le pistole dal comodino, raccontare che le hanno avute da chi era andato in montagna - a rivendicare l’eredità della Resistenza e della lotta partigiana -, fare le scritte sui muri contro i crumiri, incendiare le auto, fare le rapine e poi trovarsi intorno ad un tavolo, con una bottiglia di vino, per pianificare i primi attentati. Un’escalation che arriva all’apice con le gambizzazioni prima e gli omicidi poi.
Tutto con una naturalezza e una normalità sorprendente. Quella che la poesia «Gli attentatori» della premio Nobel polacca Szymborska descrive in modo perfetto: «Per giorni interi pensano a come uccidere (...) e a quanti ucciderne (...). Oltre a ciò mangiano con appetito i loro cibi (...), si lavano (...), telefonano (...), scherzano un po’ (...), guardano la luna e le stelle (...) e dormono saporitamente fino all’alba, purché ciò che hanno in mente non si debba far di notte». Così nel film li si descrive pigri e assonnati, vogliono dormire ancora cinque minuti prima di andare a sparare.
Non posso nascondere che ho avuto paura, paura che qualcuno venga attratto ancora dalla violenza. C’è solo da sperare che i ventenni di oggi siano più saggi e vaccinati di quelli di ieri. O che anche per loro la parte più emozionante sia quello spezzone di filmato di repertorio in cui si vedono i funerali di Alessandrini nel Duomo di Milano, con una folla immensa che accompagna la bara del magistrato assieme al presidente Pertini.
Certo il film è pieno di personaggi che denunciano la follia del terrorismo (lo stesso Scamarcio dice: «Il terrore ci aveva preso la mano, continuavamo ad uccidere, la spirale ci imprigionava. E’ giusto rinunciare alla propria umanità?»), la condanna della violenza è ripetuta più volte, tanto che secondo Marco Alessandrini «non ci sono toni apologetici». «Ma - aggiunge - l’operazione è stata furba nella scelta degli attori e la loro storia d’amore tormentata li rende romantici. E poi tutte queste scene in cui camminano lenti dopo aver sparato, con le pistole in mano, in mezzo al fumo: difficile non vedere un effetto mitizzante».
«Finalmente il punto di vista dei vinti», ripete invece Segio sul suo blog, ma è ancora una volta il loro punto di vista. E non riesco a non chiedermi chi siano davvero i vinti: coloro che hanno ammazzato o Marco, che dopo quella mattina è scappato da Milano, ha cambiato casa, scuola, amici ed è rimasto senza padre, cancellando la memoria per cercare di cancellare il dolore: «Solo dei funerali ricordo qualcosa, ma mi resta l’immagine e il rimpianto di un padre amico che me le dava tutte vinte, che amava giocare con me». O suo padre che ha finito di vivere a soli 36 anni, di portare il panettone a Natale al centralinista non vedente del Palazzo di Giustizia (dopo la sua morte non ci ha mai più pensato nessuno). O la madre, rimasta chiusa nel riserbo e nella solitudine per tre decenni. O Silvia Giralucci che andò al funerale del padre due settimane dopo aver compiuto tre anni, indossando il vestitino che il papà le aveva regalato per il compleanno.
Il film si conclude con la scritta che ricorda che Segio è stato condannato all’ergastolo, ma poi è definitivamente uscito dal carcere dopo 22 anni e oggi fa volontariato. Segio-Scamarcio appare sì vinto ma ha l’aria di un eroe sconfitto, coltiva dubbi dopo aver sparato in faccia ad Alessandrini ma questo non gli impedirà l’anno dopo di ripetere il gesto con il giudice Galli (e questo il film non lo racconta).
«La vita va avanti - sorride Marco mentre mi saluta -, pensa che mia madre dopo trent’anni di ergastolo ha ripreso ad uscire e soprattutto ha smesso di fumare. Lo faceva in maniera accanita e continuativa, adesso mi sembra più serena. Non gliel’ho detto, ma sono molto contento per lei. Anche perché lei il film non lo vedrà ed è meglio così».
«La Stampa» del 13 novembre 2009

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