«La censura al tempo del comunismo sui temi fondamentali della vita e sulla trascendenza torna oggi nel mondo occidentale secolarizzato».
di Antonio Giuliano
La società del consumo non gradisce il «disturbo metafisico»: parla il regista polacco Krzysztof Zanussi, che oggi partecipa all’incontro con Benedetto XVI
« La vera arte fa sempre riflettere. Deve nutrire l’anima. Se non la nutre, ma la distrae soltanto, non è un vero cibo, ma un chewing-gum». Si nasconde dietro una metafora apparentemente ironica, ma l’analisi del regista Krzysztof Zanussi sullo stato dell’arte cinematografica appare piuttosto preoccupante. Come rivela anche il curioso libro autobiografico appena uscito Tempo di morire. Ricordi, riflessioni, aneddoti (Spirali, pp. 386, euro 25).
Nato a Varsavia nel 1939, laureato in fisica e studioso poliglotta, Zanussi è riconosciuto come maestro del cinema internazionale, sempre attento ai temi etici e morali. Il pluripremiato autore polacco può vantare una filmografia sterminata, ma divenne celebre come 'regista del Papa' per la sua vicinanza a Giovanni Paolo II, a cui dedicò nel 1981 il film biografico Da un Paese lontano. Cognome che tradisce le sue origini friulane, Zanussi è molto legato al nostro Paese e vi farà volentieri ritorno oggi per l’incontro degli artisti con Benedetto XVI a Roma.
C’è un film che esprime maggiormente il suo rapporto con la fede?
«Ho realizzato diversi film 'confessionali' che hanno come protagonisti un santo o un sacerdote. Ma i miei film più impegnati sul problema della fede sono dedicati ad argomenti profani. Credo infatti che non occorra differenziare troppo l’arte 'cristiana', perché ogni grande arte, se è tale, porta alla Verità. Anche nell’arte nata dalla disperazione come l’opera di Albert Camus trovo che l’immagine della condizione umana abbia una funzione purificatrice. Fëdor Dostoevskij, Thomas Mann e Marcel Proust elevano e perciò sono più vicini al riflesso della grande verità di non poche melense vite di santi. Penso che il mio film più religioso sia L’imperativo. Pone apertamente la domanda: Dio esiste?».
Lei in passato ha affermato che i registi cattolici trovano molte porte chiuse. Oggi è ancora così?
«Sì. Ora più che mai la società del consumo non gradisce un 'disturbo' metafisico. L’artista può essere cattolico o meno, ciò che va giudicata è la sua opera. Anche le opere di artisti non proprio credenti possono esprimere una fede, così come quelle dei 'credenti' possono mancare di sensibilità metafisica.
Certo la fede influenza la mia arte soprattutto nella visione del destino nel quale cerco un senso, anche se il mondo ci schiaccia con l’assurdo.
Suppongo che nel destino individuale di ciascuno si celi sempre un segno del mistero, per questo medito di frequente sul caso, sulla probabilità, sulla statistica, in quanto campi in cui Dio alza il velo dell’incognito. Il cinema oggi spesso tocca la dimensione del mistero ma raramente lo fa in chiave cristiana».
Quale ricordo ha del film su Giovanni Paolo II?
«Ci sono molti aneddoti. Come la realizzazione cominciata nell’autunno del 1980 e continuata in un clima di tensione crescente: le lotte per la registrazione di Solidarnosc, la minaccia di scioperi generali… E quella di un possibile intervento sovietico: la produzione aveva perfino elaborato un piano di evacuazione: il negativo del film sarebbe stato sviluppato a Roma; tutti gli attori, tranne Morawski nel ruolo di Wojtyla, erano stranieri e avrebbero avuto buone possibilità di andar via… Al mio posto era pronto un regista televisivo italiano che avrebbe potuto finire il film altrove. Girai quel film sapendo bene in mente che 'il soggetto' lo avrebbe visto come primo spettatore. E il Papa accolse il film con molta benevolenza, ma non si commosse come scrisse il cineoperatore…».
Che cosa ha significato fare il regista prima della caduta del Muro di Berlino?
«Ricordo un film per la Tv censurato nel 1968 perché letto come allusione politica. Fui prosciolto e mi venne data la possibilità di redimermi. Così chiesi al presidente della Radiotelevisione di suggerirmi il tema del film successivo. E lui rispose: 'Faccia un film su qualsiasi cosa, purché non interessi a nessuno'.
Oggi penso che la mia domanda fosse stupida quanto la risposta. C’è da non credere che tutto questo sia accaduto ieri.
Ma tengo a precisare che il comunismo crollò con la vittoria di Solidarnosc in Polonia, sei mesi prima della caduta del Muro di Berlino. Sono stato testimone attivo di quegli eventi e sono fiero che essi facciano parte della mia biografia».
Perché è preoccupato sul fatto che il cinema possa ancora far riflettere?
«Il mio mondo crolla quando l’arte di massa rinuncia alla riflessione sui temi fondamentali, cioè mette da parte la distinzione fra bene e male e non esprime quella nostalgia dell’ideale che si chiama trascendenza ovvero l’andare oltre la nostra piccolezza, oltre quello che ci limita. Guardando i serial americani, sento che non c’è spazio per chiedersi se siamo noi i veri padroni della nostra vita o se ci governi qualche forza, che possiamo chiamare indifferentemente cieco fato, caso o Provvidenza. Penso che sarebbe utile rileggere bene la Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti.
Quando l’arte si rifiuta di parlare di ciò che oltrepassa la nostra vita, allora penso veramente che sia tempo di morire».
Nato a Varsavia nel 1939, laureato in fisica e studioso poliglotta, Zanussi è riconosciuto come maestro del cinema internazionale, sempre attento ai temi etici e morali. Il pluripremiato autore polacco può vantare una filmografia sterminata, ma divenne celebre come 'regista del Papa' per la sua vicinanza a Giovanni Paolo II, a cui dedicò nel 1981 il film biografico Da un Paese lontano. Cognome che tradisce le sue origini friulane, Zanussi è molto legato al nostro Paese e vi farà volentieri ritorno oggi per l’incontro degli artisti con Benedetto XVI a Roma.
C’è un film che esprime maggiormente il suo rapporto con la fede?
«Ho realizzato diversi film 'confessionali' che hanno come protagonisti un santo o un sacerdote. Ma i miei film più impegnati sul problema della fede sono dedicati ad argomenti profani. Credo infatti che non occorra differenziare troppo l’arte 'cristiana', perché ogni grande arte, se è tale, porta alla Verità. Anche nell’arte nata dalla disperazione come l’opera di Albert Camus trovo che l’immagine della condizione umana abbia una funzione purificatrice. Fëdor Dostoevskij, Thomas Mann e Marcel Proust elevano e perciò sono più vicini al riflesso della grande verità di non poche melense vite di santi. Penso che il mio film più religioso sia L’imperativo. Pone apertamente la domanda: Dio esiste?».
Lei in passato ha affermato che i registi cattolici trovano molte porte chiuse. Oggi è ancora così?
«Sì. Ora più che mai la società del consumo non gradisce un 'disturbo' metafisico. L’artista può essere cattolico o meno, ciò che va giudicata è la sua opera. Anche le opere di artisti non proprio credenti possono esprimere una fede, così come quelle dei 'credenti' possono mancare di sensibilità metafisica.
Certo la fede influenza la mia arte soprattutto nella visione del destino nel quale cerco un senso, anche se il mondo ci schiaccia con l’assurdo.
Suppongo che nel destino individuale di ciascuno si celi sempre un segno del mistero, per questo medito di frequente sul caso, sulla probabilità, sulla statistica, in quanto campi in cui Dio alza il velo dell’incognito. Il cinema oggi spesso tocca la dimensione del mistero ma raramente lo fa in chiave cristiana».
Quale ricordo ha del film su Giovanni Paolo II?
«Ci sono molti aneddoti. Come la realizzazione cominciata nell’autunno del 1980 e continuata in un clima di tensione crescente: le lotte per la registrazione di Solidarnosc, la minaccia di scioperi generali… E quella di un possibile intervento sovietico: la produzione aveva perfino elaborato un piano di evacuazione: il negativo del film sarebbe stato sviluppato a Roma; tutti gli attori, tranne Morawski nel ruolo di Wojtyla, erano stranieri e avrebbero avuto buone possibilità di andar via… Al mio posto era pronto un regista televisivo italiano che avrebbe potuto finire il film altrove. Girai quel film sapendo bene in mente che 'il soggetto' lo avrebbe visto come primo spettatore. E il Papa accolse il film con molta benevolenza, ma non si commosse come scrisse il cineoperatore…».
Che cosa ha significato fare il regista prima della caduta del Muro di Berlino?
«Ricordo un film per la Tv censurato nel 1968 perché letto come allusione politica. Fui prosciolto e mi venne data la possibilità di redimermi. Così chiesi al presidente della Radiotelevisione di suggerirmi il tema del film successivo. E lui rispose: 'Faccia un film su qualsiasi cosa, purché non interessi a nessuno'.
Oggi penso che la mia domanda fosse stupida quanto la risposta. C’è da non credere che tutto questo sia accaduto ieri.
Ma tengo a precisare che il comunismo crollò con la vittoria di Solidarnosc in Polonia, sei mesi prima della caduta del Muro di Berlino. Sono stato testimone attivo di quegli eventi e sono fiero che essi facciano parte della mia biografia».
Perché è preoccupato sul fatto che il cinema possa ancora far riflettere?
«Il mio mondo crolla quando l’arte di massa rinuncia alla riflessione sui temi fondamentali, cioè mette da parte la distinzione fra bene e male e non esprime quella nostalgia dell’ideale che si chiama trascendenza ovvero l’andare oltre la nostra piccolezza, oltre quello che ci limita. Guardando i serial americani, sento che non c’è spazio per chiedersi se siamo noi i veri padroni della nostra vita o se ci governi qualche forza, che possiamo chiamare indifferentemente cieco fato, caso o Provvidenza. Penso che sarebbe utile rileggere bene la Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti.
Quando l’arte si rifiuta di parlare di ciò che oltrepassa la nostra vita, allora penso veramente che sia tempo di morire».
«Avvenire» del 21 novembre 2009
Nessun commento:
Posta un commento