C'è chi non resiste al piacere di autosputtanarsi in un centimetro di foto scattate col cellulare
di Annalena Benini
La sindorme da turista giapponese si è diffusa dappertutto, costringe le persone a fotografarsi di continuo, qualsiasi cosa stiano facendo, anche in situazioni imbarazzanti e senza curarsi delle conseguenze. Il dramma dei telefonini scomparsi di Brenda e tutta l’ansia attorno al computer trovato nel lavandino riguardano infatti le foto e i video: i trans interrogati dai carabinieri hanno confermato che i clienti amano riprendersi assieme ai viados, lasciare insomma le prove della gita trasgressiva o anche portarsi a casa un souvenir, nascosto in qualche cartellina del telefono, delle proprie segrete avventure o del grande amore impossibile perché barbuto. Avviso agli amanti del clic: non esistono cartelle segrete, se ci sono da qualche parte nel mondo foto compromettenti, anche in cima all’Himalaya, salteranno sempre fuori e sicuramente nel momento peggiore.
Il richiamo della fotografia è però irresistibile, il cellulare già in mano e il sorriso pronto. Ci si immortala, felici e tuttora stupiti di poter vedere immediatamente come si è venuti: oddio guarda che rughe, guarda che tette, guarda che luna. Si rende eterno il momento, si costruisce una prova e nessuno potrà mai osare dire: non ci credo. Il turista si fotografa davanti al Colosseo, il pubblico televisivo davanti al vip incrociato nei corridoi, le ragazze di Palazzo Grazioli in bagno, davanti al lavandino, le ragazze di via Gradoli nei loro appartamenti assieme ai loro uomini, quelli che non dovrebbero trovarsi lì. Ci si filma, a volte di nascosto ma molto spesso con eccitato consenso, ci si ritrae, ci si diverte a riguardarsi, infine ci si ricatta. Ma a nessuno viene in mente di liberarsi dal tic del clic (il colonnello Gheddafi aveva ordinato alle hostess di lasciare i telefonini all’ingresso), di rinunciare alla magia: allungo il braccio, giro il cellulare, l’abbraccio, schiaccio ed ecco il mondo in un centimetro e il segreto confessato a un palmare. Poi il delirio abituale: cacce a video leggendari, telefonini scomparsi, minacce, spy story, giornalismo investigativo, complotti, la Cia, ricostruzioni fantasiose, tutte le chiappe d’oro del mondo e perfino, adesso, il morto.
Tutto perché non si resiste e ci si fotografa, come i turisti giapponesi davanti alla Fontana di Trevi o davanti alla scritta “Pizza”. Non bastavano le intercettazioni telefoniche, gente impaziente di ascoltare e registrare le vite degli altri, intere e private conversazioni a disposizione del mondo. Adesso ci si autopaparazza, in mancanza di un fotografo inseguitore. Ci si autobecca in flagrante, ci si autosputtana, si autoaccende il flash lì dove c’era l’ultimo angolo di discrezione. Per il piacere irresistibile di esserci sempre, soprattutto quando non sarebbe il caso. Come il pubblico televisivo che si mette in posa dietro all’intervistato del momento, e per nulla al mondo si sposterebbe di lì, per niente al mondo si rinuncia a dire “cheese”, in qualunque ridicola circostanza.
Il richiamo della fotografia è però irresistibile, il cellulare già in mano e il sorriso pronto. Ci si immortala, felici e tuttora stupiti di poter vedere immediatamente come si è venuti: oddio guarda che rughe, guarda che tette, guarda che luna. Si rende eterno il momento, si costruisce una prova e nessuno potrà mai osare dire: non ci credo. Il turista si fotografa davanti al Colosseo, il pubblico televisivo davanti al vip incrociato nei corridoi, le ragazze di Palazzo Grazioli in bagno, davanti al lavandino, le ragazze di via Gradoli nei loro appartamenti assieme ai loro uomini, quelli che non dovrebbero trovarsi lì. Ci si filma, a volte di nascosto ma molto spesso con eccitato consenso, ci si ritrae, ci si diverte a riguardarsi, infine ci si ricatta. Ma a nessuno viene in mente di liberarsi dal tic del clic (il colonnello Gheddafi aveva ordinato alle hostess di lasciare i telefonini all’ingresso), di rinunciare alla magia: allungo il braccio, giro il cellulare, l’abbraccio, schiaccio ed ecco il mondo in un centimetro e il segreto confessato a un palmare. Poi il delirio abituale: cacce a video leggendari, telefonini scomparsi, minacce, spy story, giornalismo investigativo, complotti, la Cia, ricostruzioni fantasiose, tutte le chiappe d’oro del mondo e perfino, adesso, il morto.
Tutto perché non si resiste e ci si fotografa, come i turisti giapponesi davanti alla Fontana di Trevi o davanti alla scritta “Pizza”. Non bastavano le intercettazioni telefoniche, gente impaziente di ascoltare e registrare le vite degli altri, intere e private conversazioni a disposizione del mondo. Adesso ci si autopaparazza, in mancanza di un fotografo inseguitore. Ci si autobecca in flagrante, ci si autosputtana, si autoaccende il flash lì dove c’era l’ultimo angolo di discrezione. Per il piacere irresistibile di esserci sempre, soprattutto quando non sarebbe il caso. Come il pubblico televisivo che si mette in posa dietro all’intervistato del momento, e per nulla al mondo si sposterebbe di lì, per niente al mondo si rinuncia a dire “cheese”, in qualunque ridicola circostanza.
«Il Foglio» del 24 novembre 2009
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