Nei licei di Milano a programmare il calendario delle agitazioni sono mamma, papà e i professori. Che caricano i figli dei loro ammuffiti rancori sessantottini. Ma non ci si ribella con la benedizione della famiglia
di Marcello Veneziani
Ragazzi, ma vi pare normale che i vostri genitori e i vostri professori decidano il calendario delle vostre agitazioni a scuola, come è accaduto al Virgilio e in altri licei di Milano? Se ragionate con la vostra testa e avete un po’ di sangue nelle vene, potete accettare di lasciar decidere a loro quando e come ribellarvi? Che ribellione è, su prescrizione medica, decisa dal preside, dai prof e dai genitori, non siete mica all’asilo infantile... Se siete davvero ribelli e anticonformisti, se non volete adeguarvi all’andazzo di ogni anno, con le rituali agitazioni di novembre, le occupazioni stagionali e i menù della rivolta a prezzo fisso, ribellatevi alle sobillazioni striscianti di quei serpenti dei vostri professori e di quelle amorevoli bisce dei vostri genitori, ribellatevi a loro e a chi vi ha preceduto, e anziché scioperare, occupare le scuole, inveire contro la Gelmini secondo copione, non mancate neanche un giorno a scuola, almeno fino a Natale, pretendete lezioni regolari dai professori e fate rientrare nei ranghi di padri e madri i vostri agitati genitori; e se vi scappa, difendete pure la Gelmini perché è la loro bestia nera. Loro vi scrivono il calendario degli scioperi e voi chiedete che loro stabiliscano solo il calendario delle lezioni, perché alle agitazioni ci pensate direttamente voi, in libertà.
Se avessi diciott’anni mi sentirei soffocato da quel bavoso giovanilismo dei prof, dei papà e delle mamme che pretendono di decidere al posto vostro pure le vostre trasgressioni, e così riescono a renderle persino noiose, prevedibili. Vi chiedono di ordinare il disordine, di programmare il caos, di stabilire addirittura un’agenda delle insurrezioni. Vogliono l’anarchia secondo legge, offrono il kit del parricidio con la benedizione di papà. Viviamo da anni il Rococò del ’68. A me sembra tutto leggermente assurdo e anche stucchevole.
Da ragazzo non lo avrei sopportato, mi sarei sentito un babbione che fa le boccacce su ordinazione di mammà o una di quelle belve da circo che alza la zampa al comando del domatore, che nella fattispecie è il professore. Un ragazzo sente il bisogno quasi fisiologico, esantematico, di contestare i suoi professori e disobbedire ai suoi genitori, non può scaricare tutta la sua rabbia e la sua ribellione su una ministro col nome da fatina, MariaStella, o sul suo premier già tanto vituperato. Sarebbe troppo comodo, verrebbe meno il conflitto generazionale che fa crescere, come dicono gli psicologi. Fa bene contestare l’autorità più prossima a noi, quella che può ascoltarci e che guardiamo in faccia. Il problema è che c’è una razza di professori e anche di genitori ancorata alla vecchia, putrida mitologia del ’68, che incita i ragazzi a rifare il Sessantotto.
Anzi per essere precisi, ci sono tra loro due sottospecie: da una parte ci sono i nostalgici del ’68 e anni seguenti, che vivono ancora nel ricordo della stagione eroica delle occupazioni, delle prime, epiche scopate scolastiche, delle prime rivolte contro i matusa; sono quelli che vogliono tornare giovani incitando i loro figli e i loro alunni a fare i contestatori, ma con l’autorizzazione a procedere dei loro stessi docenti e genitori per una forma di voyeurismo rivoluzionario. E dall’altra parte ci sono i mancati sessantottini, quelli che non si accorsero da ragazzi di quel movimento, o arrivarono troppo tardi, a festa finita; quelli che vivevano in un altro pianeta, un mondo ancora immune dalla contestazione, devoti a mammà e alle buone maniere, alla patria potestà e al professore, che crebbero repressi e misurati e ora sentono di essersi persi qualcosa di eccitante nella loro spenta gioventù. Così vogliono abdicare in favore dei loro figli, sperando di vivere per conto terzi, per interposta persona, l’ebbrezza che non vissero loro; chiedono ai loro figli di vendicare le loro scarse e compite biografie, di vivere quel che loro non hanno vissuto nel loro giusto tempo e ora cercano goffamente di recuperare.
Il risultato è che ambedue, replicanti del ’68 perduto e aspiranti del ’68 mancato, caricano i ragazzi degli anni zero di aspettative, umori e risentimenti di quarant’anni prima che sono ormai del tutto fuori luogo, fuori tempo, fuori misura. Voi sapete bene che la priorità delle emergenze per la scuola non sono i fondi ma lo scadente livello medio dei docenti, la perdita di valore e di significato della scuola, l’assenza di meritocrazia, la sua distanza siderale dal presente, dal passato e dal futuro, dalla cultura e dai mestieri reali; una specie di fiction o di second life che scorre parallela alla realtà senza quasi mai incontrarla. Scioperate piuttosto contro le tre «i» della scuola italiana: impreparazione, ideologia e ignoranza.
Se avessi diciott’anni mi sentirei soffocato da quel bavoso giovanilismo dei prof, dei papà e delle mamme che pretendono di decidere al posto vostro pure le vostre trasgressioni, e così riescono a renderle persino noiose, prevedibili. Vi chiedono di ordinare il disordine, di programmare il caos, di stabilire addirittura un’agenda delle insurrezioni. Vogliono l’anarchia secondo legge, offrono il kit del parricidio con la benedizione di papà. Viviamo da anni il Rococò del ’68. A me sembra tutto leggermente assurdo e anche stucchevole.
Da ragazzo non lo avrei sopportato, mi sarei sentito un babbione che fa le boccacce su ordinazione di mammà o una di quelle belve da circo che alza la zampa al comando del domatore, che nella fattispecie è il professore. Un ragazzo sente il bisogno quasi fisiologico, esantematico, di contestare i suoi professori e disobbedire ai suoi genitori, non può scaricare tutta la sua rabbia e la sua ribellione su una ministro col nome da fatina, MariaStella, o sul suo premier già tanto vituperato. Sarebbe troppo comodo, verrebbe meno il conflitto generazionale che fa crescere, come dicono gli psicologi. Fa bene contestare l’autorità più prossima a noi, quella che può ascoltarci e che guardiamo in faccia. Il problema è che c’è una razza di professori e anche di genitori ancorata alla vecchia, putrida mitologia del ’68, che incita i ragazzi a rifare il Sessantotto.
Anzi per essere precisi, ci sono tra loro due sottospecie: da una parte ci sono i nostalgici del ’68 e anni seguenti, che vivono ancora nel ricordo della stagione eroica delle occupazioni, delle prime, epiche scopate scolastiche, delle prime rivolte contro i matusa; sono quelli che vogliono tornare giovani incitando i loro figli e i loro alunni a fare i contestatori, ma con l’autorizzazione a procedere dei loro stessi docenti e genitori per una forma di voyeurismo rivoluzionario. E dall’altra parte ci sono i mancati sessantottini, quelli che non si accorsero da ragazzi di quel movimento, o arrivarono troppo tardi, a festa finita; quelli che vivevano in un altro pianeta, un mondo ancora immune dalla contestazione, devoti a mammà e alle buone maniere, alla patria potestà e al professore, che crebbero repressi e misurati e ora sentono di essersi persi qualcosa di eccitante nella loro spenta gioventù. Così vogliono abdicare in favore dei loro figli, sperando di vivere per conto terzi, per interposta persona, l’ebbrezza che non vissero loro; chiedono ai loro figli di vendicare le loro scarse e compite biografie, di vivere quel che loro non hanno vissuto nel loro giusto tempo e ora cercano goffamente di recuperare.
Il risultato è che ambedue, replicanti del ’68 perduto e aspiranti del ’68 mancato, caricano i ragazzi degli anni zero di aspettative, umori e risentimenti di quarant’anni prima che sono ormai del tutto fuori luogo, fuori tempo, fuori misura. Voi sapete bene che la priorità delle emergenze per la scuola non sono i fondi ma lo scadente livello medio dei docenti, la perdita di valore e di significato della scuola, l’assenza di meritocrazia, la sua distanza siderale dal presente, dal passato e dal futuro, dalla cultura e dai mestieri reali; una specie di fiction o di second life che scorre parallela alla realtà senza quasi mai incontrarla. Scioperate piuttosto contro le tre «i» della scuola italiana: impreparazione, ideologia e ignoranza.
«Il Giornale» del 24 novembre 2009
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