di Paolo Di Stefano
Siamo travolti da una compatta slavina di volgarità, per non dire di peggio. Avevamo appena sdoganato in politica «magnaccia» e «sputtanare», ed ecco che la più diretta, onnicomprensiva e indiscriminata delle parolacce, «stronzo», conquista una imprevista dignità istituzionale grazie al presidente della Camera, che i più consideravano fine di nome e di fatto. E che invece ieri si è improvvisamente adeguato all'andazzo degli ultimi tempi. Almeno verbalmente. È vero che si tratta di uno di quei vocaboli che i linguisti definiscono «desemantizzati», cioè svuotati (dall'uso e dall'abuso) del loro significato. Ma se a pronunciarlo è il presidente della Camera nel pieno delle sue funzioni, allora perde la sua innocenza e si riaccende di tutta la carica scatologica originaria. Risultando tanto più fuori luogo se si tratta di liquidare così temi seri come il razzismo. Non che il Parlamento sia mai stato parco di volgarità. Senza stare a rivangare il leggendario «celodurismo» che inaugurò trionfalmente la Seconda Repubblica, chi dimentica il «frocio, checca squallida» con cui non più di un anno fa un senatore di An si rivolse a un collega? O il «coglioni» con cui il futuro premier francobollava gli elettori avversari? O quel «s'incazzano» di un leader Pd. Qui però non siamo nell'ordinario (ordinario) turpiloquio politico. Eravamo convinti che in certi ruoli le parolacce fosse lecito solo pensarle e mai pronunciarle. Le parole sono pietre, ha scritto Carlo Levi. Ecco, eravamo sicuri che le parolacce fossero più che pietre semplicemente tabù per tre o quattro cariche istituzionali tenute (per missione) a controllare l'equilibrio nervoso (e verbale): il Papa, il presidente della Repubblica e pochi altri, intendiamoci. Esattamente come un figlio non vorrebbe mai sentir bestemmiare suo padre. O uno studente non vorrebbe (dovrebbe) mai sorprendere il prof con le mani addosso alla collega. Una questione di esempio? Perché no. Invece. La generale caduta di stile politico - del piacione di turno che ambisce a guadagnare consensi mescolando il piano pubblico con quello privato, salvo poi invocare la privacy - fa rimpiangere i tempi in cui un sano pudore (ipocrita finché volete) impediva almeno alle maggiori cariche di oltrepassare i limiti del bon ton. Senza arrivare all'anacronismo bacchettone dei «pofferbacco» o dei «maramaldo». Ma ci sarà pure una via di mezzo tra il bizantinismo forense da Prima Repubblica e l'intemperanza da bar, tra l'allusività in punta di fioretto e lo svacco.
«Corriere della Sera» del 22 novembre 2009
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