La bizzarra pretesa di uno svedese aiuta a capire un nodo cruciale
di Francesco D'Agostino
Giunge dalla Svezia una notizia, obiettivamente piccola, ma non priva di interesse. In una località del Nord del Paese, un cittadino ha chiesto alle autorità competenti di mutare il suo nome proprio, maschile, con un nuovo nome anagrafico, femminile: una richiesta non accompagnata da quella di mutare la propria identità sessuale anagrafica. Perché questa richiesta? Perché sì: se si riconosce a un cittadino di uno Stato laico e liberale il diritto di autodeterminarsi nelle sue scelte personali e al limite in quelle di fine vita, perché non dovrebbe vedersi anche riconosciuto il diritto di liberarsi di una scelta – quella del nome – che altri hanno fatto per lui? Le autorità cui si è rivolto non hanno rigettato la domanda, ma hanno adottato una soluzione di compromesso: il ricorrente si è visto riconoscere il diritto di aggiungere al proprio il nome di sua elezione, 'Madeleine', come secondo nome.
Lasciamo da parte le questioni, che pure non sono banali, di ordine pubblico, inerenti alla necessità di poter identificare socialmente le persone anche e soprattutto a partire dal loro nome anagrafico: la decisione svedese sembra sotto questo profilo rendere ancora più liquida una società, come quella moderna, che avrebbe piuttosto bisogno di nuove forme di stabilizzazione ben più consistenti di quelle attuali. Il punto è che ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso rispetto alle tante pratiche storicamente conosciute di mutamento di nome (dal soprannome al nuovo nome che ottiene chi entra in religione, dalla nuova denominazione che ottiene chi deve mutare identità per ragioni di protezione personale a quella che ottiene l’immigrato per meglio integrarsi nella comunità che lo accoglie). In tutti questi casi la nuova denominazione non entra in conflitto con la precedente, ma si limita a integrarla, più spesso a sublimarla, in casi estremi a occultarla per ragioni di forza maggiore. Ciò che invece contraddistingue il caso svedese è il rifiuto di motivare la richiesta con ragioni oggettive, valutabili socialmente. L’intenzione di alterare la propria identità e di adottare un nuovo nome proprio, per di più del sesso opposto, si unisce nella vicenda svedese a quella per la quale non dovrebbe avere alcun rilievo pubblico, e quindi nemmeno anagrafico, la distinzione sessuale, di cui il nome proprio è uno dei segni più rilevanti. A questa intenzione se ne unisce necessariamente un’altra, quella di rigettare quel dato della «stabilità dell’io» di cui il nome anagrafico è segno. Se infatti mi si riconosce come un diritto quello di mutar nome, perché questo diritto dovrebbe poter essere esercitato una volta soltanto e non tutte le volte in cui sorgesse in me il desiderio – insindacabile – di mutarlo? Giungiamo lentamente così al cuore della questione. Se tradizionalmente la richiesta del cambiamento del nome veniva avanzata, in casi peraltro molto rari, con oggettive motivazioni di tipo relazionale (tra le quali potremmo anche porre quella comprensibilissima di sostituire un nome percepito come ridicolo o umiliante), quella che ha iniziato a manifestarsi in Svezia – e che potrebbe ben presto dilagare nel resto del mondo occidentale – è piuttosto il segno di un profondo disagio nei confronti di se stessi, al quale si cerca (illusoriamente) di trovare soddisfazione attraverso una nuova denominazione anagrafica. Il punto però è che nessuno può realmente darsi il nome da sé, perché il nome non è una maschera, che si può cambiare a piacimento, ma è parte costitutiva del nostro io: riceviamo il nome da altri, come da altri riceviamo la vita, il linguaggio, l’educazione, la possibilità di un inserimento sociale. Restar fedeli al proprio nome è qualcosa di più della mera e passiva accettazione di un’identità debole: è piuttosto il percepirne le radici ultime e profonde, che non sta nelle nostre possibilità alterare e che siamo piuttosto chiamati a custodire e a difendere. Probabilmente tra le fatiche della modernità dovremo presto porre anche questa: far capire alle persone che non è dal nome che dobbiamo farci rappresentare (nel bene o nel male): siamo piuttosto noi a dover 'rappresentare' il nostro nome, aprendoci al mondo con uno sguardo limpido e sereno e operando in modo tale che tutti lo citino, se non con ammirazione, con rispetto ed amicizia.
Lasciamo da parte le questioni, che pure non sono banali, di ordine pubblico, inerenti alla necessità di poter identificare socialmente le persone anche e soprattutto a partire dal loro nome anagrafico: la decisione svedese sembra sotto questo profilo rendere ancora più liquida una società, come quella moderna, che avrebbe piuttosto bisogno di nuove forme di stabilizzazione ben più consistenti di quelle attuali. Il punto è che ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso rispetto alle tante pratiche storicamente conosciute di mutamento di nome (dal soprannome al nuovo nome che ottiene chi entra in religione, dalla nuova denominazione che ottiene chi deve mutare identità per ragioni di protezione personale a quella che ottiene l’immigrato per meglio integrarsi nella comunità che lo accoglie). In tutti questi casi la nuova denominazione non entra in conflitto con la precedente, ma si limita a integrarla, più spesso a sublimarla, in casi estremi a occultarla per ragioni di forza maggiore. Ciò che invece contraddistingue il caso svedese è il rifiuto di motivare la richiesta con ragioni oggettive, valutabili socialmente. L’intenzione di alterare la propria identità e di adottare un nuovo nome proprio, per di più del sesso opposto, si unisce nella vicenda svedese a quella per la quale non dovrebbe avere alcun rilievo pubblico, e quindi nemmeno anagrafico, la distinzione sessuale, di cui il nome proprio è uno dei segni più rilevanti. A questa intenzione se ne unisce necessariamente un’altra, quella di rigettare quel dato della «stabilità dell’io» di cui il nome anagrafico è segno. Se infatti mi si riconosce come un diritto quello di mutar nome, perché questo diritto dovrebbe poter essere esercitato una volta soltanto e non tutte le volte in cui sorgesse in me il desiderio – insindacabile – di mutarlo? Giungiamo lentamente così al cuore della questione. Se tradizionalmente la richiesta del cambiamento del nome veniva avanzata, in casi peraltro molto rari, con oggettive motivazioni di tipo relazionale (tra le quali potremmo anche porre quella comprensibilissima di sostituire un nome percepito come ridicolo o umiliante), quella che ha iniziato a manifestarsi in Svezia – e che potrebbe ben presto dilagare nel resto del mondo occidentale – è piuttosto il segno di un profondo disagio nei confronti di se stessi, al quale si cerca (illusoriamente) di trovare soddisfazione attraverso una nuova denominazione anagrafica. Il punto però è che nessuno può realmente darsi il nome da sé, perché il nome non è una maschera, che si può cambiare a piacimento, ma è parte costitutiva del nostro io: riceviamo il nome da altri, come da altri riceviamo la vita, il linguaggio, l’educazione, la possibilità di un inserimento sociale. Restar fedeli al proprio nome è qualcosa di più della mera e passiva accettazione di un’identità debole: è piuttosto il percepirne le radici ultime e profonde, che non sta nelle nostre possibilità alterare e che siamo piuttosto chiamati a custodire e a difendere. Probabilmente tra le fatiche della modernità dovremo presto porre anche questa: far capire alle persone che non è dal nome che dobbiamo farci rappresentare (nel bene o nel male): siamo piuttosto noi a dover 'rappresentare' il nostro nome, aprendoci al mondo con uno sguardo limpido e sereno e operando in modo tale che tutti lo citino, se non con ammirazione, con rispetto ed amicizia.
«Avvenire» del 18 novembre 2009
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