di Giuseppe Romano
Negli ultimi trent’anni l’evoluzione dei mezzi di comunicazione ha rivoluzionato il mondo più di quanto siamo indotti a pensare.
Quelli che una volta erano 'mass media' sono repentinamente diventati 'personal media', raggiungendo ciascuno di noi in maniere mai nemmeno immaginate: si tratti del pc, dell’accesso all’internet, del telepass o del conto bancario online, tutto questo ha alterato le nostre coordinate di spazio, tempo e identità. È un dato di fatto. Come tutti i dati di fatto, ha poi conseguenze positive e negative. Entro questa cornice vanno collocate anche quelle realtà che un po’ sbrigativamente definiamo 'videogiochi'. E che già dal punto di vista commerciale fanno capire di essere tutt’altro che produzioni marginali: da un paio d’anni in tutto il mondo, e anche in Italia, il fatturato del settore ha scavalcato quelli della musica e dell’home video.
Nonché di Hollywood. Di recente i videogiochi hanno messo piede in Parlamento: un Games Forum ne ha presentato dimensioni e caratteristiche.
Evidenziando, anche nel confronto con le istituzioni, pregi e nodi problematici. Che sono anzitutto di comprensione. S’è fatto un gran parlare di rapporto con l’educazione, per esempio. Videogiochi e scuola?
Come il diavolo e l’acquasanta, ha sentenziato un alto dirigente del ministero dell’Istruzione.
All’opposto, l’unica possibilità, di sottrarre la scuola al suo torpore, replicava un docente universitario. Da tutto il contesto, tra entusiasmi e timori, traspariva la sostanziale estraneità di funzionari, docenti, esponenti di associazioni dedite alla tutela della famiglia e dei cittadini nei confronti di un mondo importante ma non semplice da decifrare. Pesa sui videogiochi la confusione tra tecnologia e linguaggio.
Complice quel salto generazionale che separa gli adulti dai giovani 'nativi digitali', si tende a considerare prevalenti le dimensioni strumentali: è in base a questo principio che oggi, se chiedi ai burocrati che devono guidare il domani della scuola, spesso ti rispondono che 'digitale' equivale a introdurre lavagne elettroniche al posto di quelle tradizionali. Si farebbe più strada se si cogliessero le enormi potenzialità, sotto ogni punto di vista, di queste 'storie interattive' che da trent’anni si sono affiancate ai libri, ai film, alle canzoni nel nostro immaginario collettivo.
Dimostrando potenzialità espressive, artistiche e di comunicazione tali da far pensare che a tutt’oggi abbiamo appena iniziato a esplorarne i confini. Altro che il web: la qualità del linguaggio, in questo settore, è di tale raffinatezza da far pensare che niente sia precluso, compresa l’ipotesi di avvalersene fruttuosamente anche nel mondo dell’educazione scolastica e familiare. Resta la questione dei contenuti. Che è linguistica, non tecnologica. Non si può imputare ai produttori, che fanno il loro mestiere, il fatto di mettere l’accento sull’equivoco termine 'videogiochi': è restrittivo e insufficiente, tuttavia illustra bene una dimensione commerciale assai proficua. Ma, appunto perché è questione di linguaggio e non di tecnologie, investire nell’interattività digitale comporta immaginare, nel medio periodo, non soltanto allievi e docenti, ma anche professionisti, poeti, artisti dell’interattività. Non le abbiamo ancora viste al loro meglio, le 'storie interattive'; e non è certo questione di effetti speciali, di bit e di megahertz.
Quelli che una volta erano 'mass media' sono repentinamente diventati 'personal media', raggiungendo ciascuno di noi in maniere mai nemmeno immaginate: si tratti del pc, dell’accesso all’internet, del telepass o del conto bancario online, tutto questo ha alterato le nostre coordinate di spazio, tempo e identità. È un dato di fatto. Come tutti i dati di fatto, ha poi conseguenze positive e negative. Entro questa cornice vanno collocate anche quelle realtà che un po’ sbrigativamente definiamo 'videogiochi'. E che già dal punto di vista commerciale fanno capire di essere tutt’altro che produzioni marginali: da un paio d’anni in tutto il mondo, e anche in Italia, il fatturato del settore ha scavalcato quelli della musica e dell’home video.
Nonché di Hollywood. Di recente i videogiochi hanno messo piede in Parlamento: un Games Forum ne ha presentato dimensioni e caratteristiche.
Evidenziando, anche nel confronto con le istituzioni, pregi e nodi problematici. Che sono anzitutto di comprensione. S’è fatto un gran parlare di rapporto con l’educazione, per esempio. Videogiochi e scuola?
Come il diavolo e l’acquasanta, ha sentenziato un alto dirigente del ministero dell’Istruzione.
All’opposto, l’unica possibilità, di sottrarre la scuola al suo torpore, replicava un docente universitario. Da tutto il contesto, tra entusiasmi e timori, traspariva la sostanziale estraneità di funzionari, docenti, esponenti di associazioni dedite alla tutela della famiglia e dei cittadini nei confronti di un mondo importante ma non semplice da decifrare. Pesa sui videogiochi la confusione tra tecnologia e linguaggio.
Complice quel salto generazionale che separa gli adulti dai giovani 'nativi digitali', si tende a considerare prevalenti le dimensioni strumentali: è in base a questo principio che oggi, se chiedi ai burocrati che devono guidare il domani della scuola, spesso ti rispondono che 'digitale' equivale a introdurre lavagne elettroniche al posto di quelle tradizionali. Si farebbe più strada se si cogliessero le enormi potenzialità, sotto ogni punto di vista, di queste 'storie interattive' che da trent’anni si sono affiancate ai libri, ai film, alle canzoni nel nostro immaginario collettivo.
Dimostrando potenzialità espressive, artistiche e di comunicazione tali da far pensare che a tutt’oggi abbiamo appena iniziato a esplorarne i confini. Altro che il web: la qualità del linguaggio, in questo settore, è di tale raffinatezza da far pensare che niente sia precluso, compresa l’ipotesi di avvalersene fruttuosamente anche nel mondo dell’educazione scolastica e familiare. Resta la questione dei contenuti. Che è linguistica, non tecnologica. Non si può imputare ai produttori, che fanno il loro mestiere, il fatto di mettere l’accento sull’equivoco termine 'videogiochi': è restrittivo e insufficiente, tuttavia illustra bene una dimensione commerciale assai proficua. Ma, appunto perché è questione di linguaggio e non di tecnologie, investire nell’interattività digitale comporta immaginare, nel medio periodo, non soltanto allievi e docenti, ma anche professionisti, poeti, artisti dell’interattività. Non le abbiamo ancora viste al loro meglio, le 'storie interattive'; e non è certo questione di effetti speciali, di bit e di megahertz.
«Avvenire» del 19 novembre 2009
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