Inizia oggi alla Camera l’esame degli emendamenti al disegno di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) Al testo base di Domenico Di Virgilio sono state opposte alcune obiezioni. Tutte criticabili
di Claudio Sartea
E’ tornato al centro del dibattito parlamentare e mediatico il disegno di legge dedicato alla disciplina delle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), mentre inizia – oggi alla Camera – l’esme degli oltre 2600 emendamenti al testo redatto dal relatore Di Virgilio sulla falasariga di quello uscito in marzo dal Senato. Serve però attenzione per non incorrere in banalizzazioni, riduzionismi, o semplicemente errori, sottili o grossolani poco importa perché si trovano in ogni caso assai distanti dalla realtà. Proviamo a schematizzare.
1. Si torna a invocare che la legge, se legge dev’esserci sul cosiddetto «fine vita», non sia una legge analitica, ingombrante, «pesante»: e sia piuttosto soft law , «diritto mite». Già si è osservato che questa dolce espressione è terribilmente equivoca: sia perché il diritto, quando deve intervenire, non può farlo senza creare precisi vincoli; sia perché in materia così delicata una mera legislazione per principi potrebbe implicare la sostanziale rinuncia alla regolamentazione del fenomeno (del resto, qualunque principialismo delude proprio nei momenti cruciali, quando si tratta di gerarchizzare i principi in contrasto). E poi, siamo proprio sicuri che i principi siano così univoci come si dice? Non stiamo scambiando un’ingenua speranza con la dura, invincibile ambiguità delle parole, anche di quelle della scienza?
Quale sarebbe il criterio definitivo e certo per stabilire se un trattamento sia terapeutico o no? Se sia benefico per il paziente, o no? È reale l’unanimità della classe medica circa la distinzione tra trattamenti e cure? Non si tratta di chiamare il legislatore in sala operatoria o in terapia intensiva, ma sì di esigere che sulle decisioni di vita e di morte esistano indicazioni normative che orientino con certezza gli operatori, meglio se in coerenza con le indicazioni deontologiche che sicuramente parlano chiaro contro l’eutanasia e a favore di un impegno del medico per «la vita, la salute ed il sollievo dalla sofferenza» del paziente affidato alle sue cure. Anche perché, nel silenzio del legislatore, prima o poi dovrà parlare il giudice: e abbiamo già visto quali possano divenire le conseguenze delle lacune di legge (anche quando magari lacune non ci sono, ma vengono evocate a giustificare un insostenibile principio di disapplicazione dell’ordinamento penale).
2. Molti eminenti intellettuali e giuristi sembrano ritenere ormai inevitabile che, nella «società liquida» in cui siamo tutti immersi, l’unico diritto possibile sia fluido e malleabile: ma occorre chiedersi se a queste condizioni è ancora di diritto che stiamo parlando, se esso ha ancora il senso della regola e lo scopo dell’ordine. Per salvare il salvabile c’è chi si riferisce all’inevitabile presenza sistemica della violenza e riconduce la norma giuridica al ruolo residuale di regolamentazione sociale: gestita esclusivamente dal potere statuale ma, nei prevalenti sistemi liberali, essenzialmente finalizzata alla salvaguardia della massima possibile espressività dell’autonomia individuale. Così, in riferimento alla nostra materia, si accusano i sostenitori del testo approvato al Senato di misconoscere le ragioni del paziente, di sottovalutarne il ruolo nel rapporto clinico, di offendere la sensibilità, i progetti di vita, la volontà stessa del malato e dei suoi familiari; i più ardimentosi addirittura accusano la normativa di fare l’apologia dell’accanimento terapeutico (dimenticandone evidentemente l’art. 1.f). Se le cose stessero così, occorrerebbe schierarsi immediatamente, e senza esitazioni, al fianco dei detrattori del disegno di legge in discussione: ma le cose così non stanno. Alla sacrosanta tutela del volere del paziente deve corrispondere, in maniera equilibrata, il riconoscimento dell’autonomia, in scienza e coscienza, del professionista sanitario: che in nessun caso può venir messo con le spalle al muro e obbligato ad azioni «professionali» che egli, nel caso specifico, non ritenesse opportune in base ad argomenti difendibili. L’alternativa, checché se ne dica sull’onda della polemica o dell’ideologia, è ancora la violenza: perché non ha altro nome costringere un soggetto all’adozione di comportamenti che egli non considera adeguati, e che invece, per intollerabile paradosso, sarebbe obbligato a tenere a seguito di una scelta professionale originariamente liberrima. Del resto, le ricorrenti proteste dei vari ordini professionali che reagiscono alle imposizioni legali sono lì a ricordarci quanto poco democratico possa diventare un simile sistema (si pensi ai farmacisti e al problema della dispensa dall’obbligo di commercializzazione della pillola del giorno dopo).
3. Sul punto concreto, ma simbolicamente e operativamente cruciale, della nutrizione e idratazione artificiale, è stato da poco raccomandato anche a livello parlamentare di prendere in considerazione la possibilità di una «meditata sospensione delle volontà del paziente [che rifiutassero il sostegno vitale], se da questa sospensione si può attendere (e fino a quando si può attendere) un reale beneficio terapeutico».
La formulazione è suggestiva e originale, ma non sembra costituire una valida mediazione, perché manca il bersaglio centrale della questione: non si tratta qui infatti, tranne rarissimi casi, e comunque a prescindere dal tipo di competenze e tecnologie che coinvolge, di attività in senso stretto «terapeutica», nemmeno in senso palliativo, ma semplicemente di quel che occorre garantire per la sopravvivenza di un paziente il quale, in assenza di quelle cure, peggiorerebbe e morirebbe non per effetto della patologia che lo affligge, bensì per la letterale «trascuratezza » di cui è stato vittima innocente. Un approccio diverso a questi e simili atti di cura (si pensi a quel che occorre continuamente fare attorno al malato inerte, per prevenirne le piaghe da decubito), difficilmente potrebbe sottrarsi al sospetto di un uso strumentale, finalizzato all’accelerazione del decesso: né importa che ciò avvenga in base a previa richiesta del paziente, o in assenza di essa, perché nell’uno e nell’altro caso vengono richieste al personale sanitario condotte opposte al senso stesso della sua professione.
Dobbiamo fare tutti ancora molta strada per acquisire un’adeguata consapevolezza del significato e della pregnanza di parole come cura, terapia, accudimento, doveri del sanitario, responsabilità deontologica, nonché dei loro nessi e delle loro distinzioni. Nel frattempo, se una legge bisogna approvare, c’è da augurarsi che prenda almeno sul serio il principio di precauzione, ed eviti di rendersi correa di questa arretratezza semantica: sarebbe una responsabilità grave, che difficilmente ci perdonerebbero quanti oggi ne morissero, e gli altri, che domani ci giudicheranno.
1. Si torna a invocare che la legge, se legge dev’esserci sul cosiddetto «fine vita», non sia una legge analitica, ingombrante, «pesante»: e sia piuttosto soft law , «diritto mite». Già si è osservato che questa dolce espressione è terribilmente equivoca: sia perché il diritto, quando deve intervenire, non può farlo senza creare precisi vincoli; sia perché in materia così delicata una mera legislazione per principi potrebbe implicare la sostanziale rinuncia alla regolamentazione del fenomeno (del resto, qualunque principialismo delude proprio nei momenti cruciali, quando si tratta di gerarchizzare i principi in contrasto). E poi, siamo proprio sicuri che i principi siano così univoci come si dice? Non stiamo scambiando un’ingenua speranza con la dura, invincibile ambiguità delle parole, anche di quelle della scienza?
Quale sarebbe il criterio definitivo e certo per stabilire se un trattamento sia terapeutico o no? Se sia benefico per il paziente, o no? È reale l’unanimità della classe medica circa la distinzione tra trattamenti e cure? Non si tratta di chiamare il legislatore in sala operatoria o in terapia intensiva, ma sì di esigere che sulle decisioni di vita e di morte esistano indicazioni normative che orientino con certezza gli operatori, meglio se in coerenza con le indicazioni deontologiche che sicuramente parlano chiaro contro l’eutanasia e a favore di un impegno del medico per «la vita, la salute ed il sollievo dalla sofferenza» del paziente affidato alle sue cure. Anche perché, nel silenzio del legislatore, prima o poi dovrà parlare il giudice: e abbiamo già visto quali possano divenire le conseguenze delle lacune di legge (anche quando magari lacune non ci sono, ma vengono evocate a giustificare un insostenibile principio di disapplicazione dell’ordinamento penale).
2. Molti eminenti intellettuali e giuristi sembrano ritenere ormai inevitabile che, nella «società liquida» in cui siamo tutti immersi, l’unico diritto possibile sia fluido e malleabile: ma occorre chiedersi se a queste condizioni è ancora di diritto che stiamo parlando, se esso ha ancora il senso della regola e lo scopo dell’ordine. Per salvare il salvabile c’è chi si riferisce all’inevitabile presenza sistemica della violenza e riconduce la norma giuridica al ruolo residuale di regolamentazione sociale: gestita esclusivamente dal potere statuale ma, nei prevalenti sistemi liberali, essenzialmente finalizzata alla salvaguardia della massima possibile espressività dell’autonomia individuale. Così, in riferimento alla nostra materia, si accusano i sostenitori del testo approvato al Senato di misconoscere le ragioni del paziente, di sottovalutarne il ruolo nel rapporto clinico, di offendere la sensibilità, i progetti di vita, la volontà stessa del malato e dei suoi familiari; i più ardimentosi addirittura accusano la normativa di fare l’apologia dell’accanimento terapeutico (dimenticandone evidentemente l’art. 1.f). Se le cose stessero così, occorrerebbe schierarsi immediatamente, e senza esitazioni, al fianco dei detrattori del disegno di legge in discussione: ma le cose così non stanno. Alla sacrosanta tutela del volere del paziente deve corrispondere, in maniera equilibrata, il riconoscimento dell’autonomia, in scienza e coscienza, del professionista sanitario: che in nessun caso può venir messo con le spalle al muro e obbligato ad azioni «professionali» che egli, nel caso specifico, non ritenesse opportune in base ad argomenti difendibili. L’alternativa, checché se ne dica sull’onda della polemica o dell’ideologia, è ancora la violenza: perché non ha altro nome costringere un soggetto all’adozione di comportamenti che egli non considera adeguati, e che invece, per intollerabile paradosso, sarebbe obbligato a tenere a seguito di una scelta professionale originariamente liberrima. Del resto, le ricorrenti proteste dei vari ordini professionali che reagiscono alle imposizioni legali sono lì a ricordarci quanto poco democratico possa diventare un simile sistema (si pensi ai farmacisti e al problema della dispensa dall’obbligo di commercializzazione della pillola del giorno dopo).
3. Sul punto concreto, ma simbolicamente e operativamente cruciale, della nutrizione e idratazione artificiale, è stato da poco raccomandato anche a livello parlamentare di prendere in considerazione la possibilità di una «meditata sospensione delle volontà del paziente [che rifiutassero il sostegno vitale], se da questa sospensione si può attendere (e fino a quando si può attendere) un reale beneficio terapeutico».
La formulazione è suggestiva e originale, ma non sembra costituire una valida mediazione, perché manca il bersaglio centrale della questione: non si tratta qui infatti, tranne rarissimi casi, e comunque a prescindere dal tipo di competenze e tecnologie che coinvolge, di attività in senso stretto «terapeutica», nemmeno in senso palliativo, ma semplicemente di quel che occorre garantire per la sopravvivenza di un paziente il quale, in assenza di quelle cure, peggiorerebbe e morirebbe non per effetto della patologia che lo affligge, bensì per la letterale «trascuratezza » di cui è stato vittima innocente. Un approccio diverso a questi e simili atti di cura (si pensi a quel che occorre continuamente fare attorno al malato inerte, per prevenirne le piaghe da decubito), difficilmente potrebbe sottrarsi al sospetto di un uso strumentale, finalizzato all’accelerazione del decesso: né importa che ciò avvenga in base a previa richiesta del paziente, o in assenza di essa, perché nell’uno e nell’altro caso vengono richieste al personale sanitario condotte opposte al senso stesso della sua professione.
Dobbiamo fare tutti ancora molta strada per acquisire un’adeguata consapevolezza del significato e della pregnanza di parole come cura, terapia, accudimento, doveri del sanitario, responsabilità deontologica, nonché dei loro nessi e delle loro distinzioni. Nel frattempo, se una legge bisogna approvare, c’è da augurarsi che prenda almeno sul serio il principio di precauzione, ed eviti di rendersi correa di questa arretratezza semantica: sarebbe una responsabilità grave, che difficilmente ci perdonerebbero quanti oggi ne morissero, e gli altri, che domani ci giudicheranno.
«Avvenire» del 26 novembre 2009
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