Scuola: le occupazioni contestate
di Pierluigi Battista
Forse qualcosa sta cambiando, nella liturgia d’autunno che ogni anno si inscena nelle scuole italiane. Gli studenti sembrano disamorati (al momento) di cortei e «okkupazioni ». Un gruppo di professori si barrica in un liceo romano dopo aver appreso da un tam tam di Facebook che un gruppo di studenti si stava preparando a occupare l’istituto. Si profila persino la minaccia del 5 in condotta: arma spuntata se ad esserne colpiti fossero i grandi numeri; un deterrente minaccioso se il movimento dovesse trascinare solo gruppi sparuti.
Qualcuno sostiene che l’Onda è rifluita. Si avverte una stanchezza, una saturazione per forme di mobilitazione sempre uguali, sempre scritte sullo stesso copione, sempre più rituali, stucchevoli, ripetitive. Un anno fa il gesto di fierezza dei professori romani sarebbe stato inimmaginabile. C’erano certo le proposte del ministro Gelmini a catalizzare malcontento e spirito di protesta. Ma già allora, dopo la fiammata che sembrò incendiare le scuole di tutta Italia, si era insinuato il dubbio che l’Onda fosse, a parte marginali ritocchi di immagine, la riproposizione delle stesse dinamiche (stagionali, preferibilmente autunnali) coniate nel ’68 e dintorni e poi ricalcate con forme di lotta, coreografie, slogan e tic linguistici come se nel frattempo non fossero trascorsi oramai tanti lustri. Vale la pena di mobilitarsi con obiettivi vaghi e confusi, sapendo che tanto alla fine, passata l’ebbrezza del movimento, il colore delle manifestazioni, il calore della comunità, tutto resterà esattamente come prima?
Perché, poi, ragioni per protestare ce ne sarebbero.
Ci sarebbe il furto del futuro che avvilisce le nuove generazioni. Ci sarebbe la frustrazione di una scuola che non regge gli standard qualitativi degli altri paesi europei. Ci sarebbe una generale mancanza di senso e di significato che mortifica la scuola e chi ci lavora, a cominciare dagli insegnanti, e chi si sta formando in condizioni quasi sempre drammaticamente sfavorevoli. Ma è il rito che appare esausto. È l’usura degli slogan che frena ogni passione. Subentra il disincanto, che è cosa diversa (e peggiore) della pace. La rassegnazione. La rinuncia. La successione di cortei e «okkupazioni» appare quasi una vacanza mascherata, un modo per sentirsi presenti e partecipi. Ma la mancanza di obiettivi credibili genera frustrazione, scontento, apatia.
La cosa peggiore sarebbe che la politica e gli insegnanti si abbandonassero a un rancore contro un movimento oramai debole e sfibrato, a un appello all’ordine destinato a spegnere ogni residuo barlume di «movimento». È proprio quando molti studenti si accorgono del vicolo cieco in cui sono finiti a causa degli stanchi riti degli anni passati che ci sarebbe bisogno di una politica saggia, che non alimenti il senso di sconfitta e non appaia ritorsiva verso chi comunque esprime un disagio da non sottovalutare. Le onde studentesche rifluiscono, le vecchie liturgie si appannano. Ma resta da ricostruire un senso della scuola in cui gli studenti possano sentirsi parte decisiva e centrale. Non sarà facile, ma non avrà il sapore di antico di mobilitazioni oramai trite. Che cadono ogni autunno, come le foglie.
Qualcuno sostiene che l’Onda è rifluita. Si avverte una stanchezza, una saturazione per forme di mobilitazione sempre uguali, sempre scritte sullo stesso copione, sempre più rituali, stucchevoli, ripetitive. Un anno fa il gesto di fierezza dei professori romani sarebbe stato inimmaginabile. C’erano certo le proposte del ministro Gelmini a catalizzare malcontento e spirito di protesta. Ma già allora, dopo la fiammata che sembrò incendiare le scuole di tutta Italia, si era insinuato il dubbio che l’Onda fosse, a parte marginali ritocchi di immagine, la riproposizione delle stesse dinamiche (stagionali, preferibilmente autunnali) coniate nel ’68 e dintorni e poi ricalcate con forme di lotta, coreografie, slogan e tic linguistici come se nel frattempo non fossero trascorsi oramai tanti lustri. Vale la pena di mobilitarsi con obiettivi vaghi e confusi, sapendo che tanto alla fine, passata l’ebbrezza del movimento, il colore delle manifestazioni, il calore della comunità, tutto resterà esattamente come prima?
Perché, poi, ragioni per protestare ce ne sarebbero.
Ci sarebbe il furto del futuro che avvilisce le nuove generazioni. Ci sarebbe la frustrazione di una scuola che non regge gli standard qualitativi degli altri paesi europei. Ci sarebbe una generale mancanza di senso e di significato che mortifica la scuola e chi ci lavora, a cominciare dagli insegnanti, e chi si sta formando in condizioni quasi sempre drammaticamente sfavorevoli. Ma è il rito che appare esausto. È l’usura degli slogan che frena ogni passione. Subentra il disincanto, che è cosa diversa (e peggiore) della pace. La rassegnazione. La rinuncia. La successione di cortei e «okkupazioni» appare quasi una vacanza mascherata, un modo per sentirsi presenti e partecipi. Ma la mancanza di obiettivi credibili genera frustrazione, scontento, apatia.
La cosa peggiore sarebbe che la politica e gli insegnanti si abbandonassero a un rancore contro un movimento oramai debole e sfibrato, a un appello all’ordine destinato a spegnere ogni residuo barlume di «movimento». È proprio quando molti studenti si accorgono del vicolo cieco in cui sono finiti a causa degli stanchi riti degli anni passati che ci sarebbe bisogno di una politica saggia, che non alimenti il senso di sconfitta e non appaia ritorsiva verso chi comunque esprime un disagio da non sottovalutare. Le onde studentesche rifluiscono, le vecchie liturgie si appannano. Ma resta da ricostruire un senso della scuola in cui gli studenti possano sentirsi parte decisiva e centrale. Non sarà facile, ma non avrà il sapore di antico di mobilitazioni oramai trite. Che cadono ogni autunno, come le foglie.
«Corriere della sera» del 20 novembre 2009
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