Conferenza fallita, i poveri aspettano
di Giulio Albanese
Rammarico e delusione di fronte ad un’altra occasione mancata. Sono questi i sentimenti che meglio esprimono il disagio degli uomini di buona volontà, su scala planetaria, rispetto alle conclusioni del vertice della Fao sulla sicurezza alimentare svoltosi da lunedì a ieri.
Un evento inconcludente, forse il peggiore nella storia di questa benemerita organizzazione Onu, caratterizzato dall’indifferenza dei Grandi della Terra e soprattutto dall’assenza di obiettivi concreti e modalità attuative in campo economico. Se da una parte è vero che i principi chiave del documento acclamato dai capi di Stato e di governo in assemblea plenaria formulano gli orientamenti della strategia futura nella lotta contro la fame, dall’altra rimangono pur sempre semplici enunciazioni, mancando ad esempio le cifre reali degli stanziamenti. Insomma, quei famosi 44 miliardi di dollari annui, che lo stesso direttore generale della Fao, Jacques Diouf, si era preoccupato di inserire nel testo preparatorio, sono stati depennati nella versione finale per assicurare il voto del Canada, dell’Australia e dei Paesi del G8. Inoltre, è davvero sconcertante il fatto che nel testo sia mancato un preciso riferimento temporale: entro quando, cioè, raggiungere l’obiettivo di sradicare la piaga della fame, che oggi affligge oltre un miliardo di persone. E cosa dire poi di quel fantomatico coordinamento di controllo sulla sicurezza alimentare, dato che nessuno s’è preoccupato di definirne i meccanismi nel testo finale? Per non parlare della questione climatica o della cosiddetta agricoltura sostenibile che, sebbene siano state enunciate, mancano di quelle indicazioni operative per cui sia possibile realizzare progetti a breve, medio e lungo termine.
Per chi si sforza di riconoscere nella storia contemporanea l’orizzonte cristiano della speranza, il messaggio di Benedetto XVI ha presentato davvero l’unica nota positiva delle intere assise, un indirizzo che se fosse stato accolto da chi di dovere, proprio per la sua concretezza, avrebbe potuto segnare la svolta. Ed invece questo summit ha rilevato palesemente la debolezza di un sistema istituzionale internazionale di cui la Fao, forse più di altri organismi, rappresenta la cartina al tornasole. Ma sarebbe fuorviante prendersela con le Nazioni Unite che, da molto tempo a questa parte, hanno dimostrato d’essere un organismo frenato dal pesante fardello della burocrazia. La verità è che l’Onu, attraverso le sue molteplici diramazioni, è l’espressione eclatante di quello che i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza intendono che sia: un’istituzione debole a cui però viene affidata l’ardua missione di rappresentare il consesso delle nazioni come unico organismo 'super partes' a livello planetario. E allora sarebbe più onesto che il presidente Usa Barack Obama o il premier britannico Gordon Brown (tanto per citare alcuni tra gli illustri assenti), che in altri tempi sembravano fossero i portabandiera della solidarietà globale, ammettessero la mancanza di volontà politica dei rispettivi governi. La posta in gioco è alta essendo l’inedia una questione morale che ancora una volta viene 'premeditatamente' lasciata nel cassetto, con conseguenze devastanti per una moltitudine smisurata di uomini e di donne, mentre si preferisce investire, con grande disinvoltura e spregiudicatezza, per salvare l’alta finanza e sostenere le spese militari. Sta di fatto che nella suggestiva cornice dell’Urbe a farla da padroni sull’Aventino sono stati personaggi alquanto controversi come il colonnello libico Muammar Gheddafi o il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, i quali, a modo loro, hanno cercato di travestirsi da paladini del Sud del mondo. Sarebbe comunque un errore pensare che il Ricco Epulone possa continuare a fare il bello e il cattivo tempo. Perché la salvezza di Lazzaro è oggi più che mai un precetto per tanta società civile, 'voce di chi non ha voce'.
Un evento inconcludente, forse il peggiore nella storia di questa benemerita organizzazione Onu, caratterizzato dall’indifferenza dei Grandi della Terra e soprattutto dall’assenza di obiettivi concreti e modalità attuative in campo economico. Se da una parte è vero che i principi chiave del documento acclamato dai capi di Stato e di governo in assemblea plenaria formulano gli orientamenti della strategia futura nella lotta contro la fame, dall’altra rimangono pur sempre semplici enunciazioni, mancando ad esempio le cifre reali degli stanziamenti. Insomma, quei famosi 44 miliardi di dollari annui, che lo stesso direttore generale della Fao, Jacques Diouf, si era preoccupato di inserire nel testo preparatorio, sono stati depennati nella versione finale per assicurare il voto del Canada, dell’Australia e dei Paesi del G8. Inoltre, è davvero sconcertante il fatto che nel testo sia mancato un preciso riferimento temporale: entro quando, cioè, raggiungere l’obiettivo di sradicare la piaga della fame, che oggi affligge oltre un miliardo di persone. E cosa dire poi di quel fantomatico coordinamento di controllo sulla sicurezza alimentare, dato che nessuno s’è preoccupato di definirne i meccanismi nel testo finale? Per non parlare della questione climatica o della cosiddetta agricoltura sostenibile che, sebbene siano state enunciate, mancano di quelle indicazioni operative per cui sia possibile realizzare progetti a breve, medio e lungo termine.
Per chi si sforza di riconoscere nella storia contemporanea l’orizzonte cristiano della speranza, il messaggio di Benedetto XVI ha presentato davvero l’unica nota positiva delle intere assise, un indirizzo che se fosse stato accolto da chi di dovere, proprio per la sua concretezza, avrebbe potuto segnare la svolta. Ed invece questo summit ha rilevato palesemente la debolezza di un sistema istituzionale internazionale di cui la Fao, forse più di altri organismi, rappresenta la cartina al tornasole. Ma sarebbe fuorviante prendersela con le Nazioni Unite che, da molto tempo a questa parte, hanno dimostrato d’essere un organismo frenato dal pesante fardello della burocrazia. La verità è che l’Onu, attraverso le sue molteplici diramazioni, è l’espressione eclatante di quello che i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza intendono che sia: un’istituzione debole a cui però viene affidata l’ardua missione di rappresentare il consesso delle nazioni come unico organismo 'super partes' a livello planetario. E allora sarebbe più onesto che il presidente Usa Barack Obama o il premier britannico Gordon Brown (tanto per citare alcuni tra gli illustri assenti), che in altri tempi sembravano fossero i portabandiera della solidarietà globale, ammettessero la mancanza di volontà politica dei rispettivi governi. La posta in gioco è alta essendo l’inedia una questione morale che ancora una volta viene 'premeditatamente' lasciata nel cassetto, con conseguenze devastanti per una moltitudine smisurata di uomini e di donne, mentre si preferisce investire, con grande disinvoltura e spregiudicatezza, per salvare l’alta finanza e sostenere le spese militari. Sta di fatto che nella suggestiva cornice dell’Urbe a farla da padroni sull’Aventino sono stati personaggi alquanto controversi come il colonnello libico Muammar Gheddafi o il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, i quali, a modo loro, hanno cercato di travestirsi da paladini del Sud del mondo. Sarebbe comunque un errore pensare che il Ricco Epulone possa continuare a fare il bello e il cattivo tempo. Perché la salvezza di Lazzaro è oggi più che mai un precetto per tanta società civile, 'voce di chi non ha voce'.
«Avvenire» del 19 novembre 2009
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