Stop alla «clandestinità riabilitata»
di Francesco Ognibene
Il colpo di scena è arrivato proprio all’ultimo minuto. La partita per il via libera alla pillola abortiva negli ospedali italiani s’è riaperta proprio quando pareva ormai prossimo alla conclusione l’inesorabile iter burocratico del 'mutuo riconoscimento' per un farmaco già adottato in altri Paesi dell’Unione europea.
La cieca macchina dei timbri apposti da organismi tecnici in calce all’autorizzazione di un medicinale col quale s’introduce in Italia nientemeno che un nuovo modo di abortire pareva impossibile da arrestare, in barba a una legge dello Stato. Ma il Parlamento ha finalmente reagito mostrando di volersi riappropriare della sua funzione di rappresentanza della volontà popolare. E ha deciso di vederci chiaro, con una determinazione che l’ha condotto – ieri – a rimettere in discussione ciò che molti davano per acquisito. È arrivata così l’ineccepibile decisione di chiedere al governo una parola chiara sulla discutibilissima compatibilità della Ru486 con ciò che dispone la 194: una legge che, come tutti sanno, mai ci è piaciuta, ma che quantomeno detta alcune regole minime per evitare di aggiungere allo scempio dell’embrione lo sfregio sulla donna già ferita da una scelta drammatica come l’interruzione di una gravidanza. Perché la Ru486 non è l’«aborto dolce» o «meno invasivo», come vagheggia chi vorrebbe sbancare ogni forma di tutela della vita (caposaldo della Costituzione) in nome di una libertà 'liquida'. L’aborto chimico – in realtà – è una procedura lunga e dolorosa, un metodo brutale per mettere fine con le proprie mani a quella vita che germoglia nel grembo, fino all’umiliazione di fare tutto da sé e di vedere (in oltre la metà dei casi) quel poco che resta di una vita che poteva essere. Un dolore indicibile, ricacciato nell’angolo buio del bagno di casa, nella migliore delle ipotesi. La clandestinità riabilitata. È questo che dovremmo veder introdotto anche in Italia (e poco importa che altrove sia già così), col placet di uno Stato neutrale? O non è bene reagire e ragionare finché c’è possibilità, per esigere civilmente che ci si accorga della «banalità del male» quando ricompare in nuove, edulcorate forme dalle sentine della storia, per allungare la sua ombra sulla vita umana più fragile?
A questo orrore il Senato ha responsabilmente detto no, reggendo un formidabile e convergente urto politico, mediatico e culturale. La maggioranza della Commissione Sanità ha dunque chiesto che venga rispettata alla lettera la legge là dove dispone il ricovero ordinario sino al completamento dell’aborto, senza ricorrere a stratagemmi come il day hospital o le dimissioni 'volontarie' (magari incoraggiate da disinvolti ginecologi o fautori di un’ideologica deregulation).
Chi nelle manifestazioni tardo-femministe strilla all’intoccabilità della 194 abbia almeno il buon gusto di non pretenderne ora un’applicazione a intermittenza, e un sostanziale scardinamento. Di fronte a un intervento dell’istituzione democratica che s’ingegna per garantire la salute fisica e psicologica delle donne, insidiata da un nuovo 'farmaco' che porta morte, diventa sempre più incomprensibile il fuoco di sbarramento opposto da parlamentari che hanno parlato di decisione «cinica» e «insensata», di «forzatura politica», addirittura di «gioco scandaloso». In questo coro di lamentazioni pregiudiziali non s’è udito il coraggio moderno e libero di affrontare la sostanza della questione: la pillola abortiva è davvero un bene per le donne, o è solo un sistema illusoriamente sbrigativo per chiudere la 'pratica' aborto senza disturbare, fingendo che sia una vicenda sanitaria come tante? Il modo in cui lo si vorrebbe estendere in tutta Italia (una pillola e via, tutte a casa, per non appesantire i costi della sanità) sa tanto di ostinazione ideologica, con un sovrappiù di invettive agli 'oscurantisti' che si oppongono.
Una vita che palpita e il corpo delle donne usati per affermare un’assoluta e incontrollata libertà di aborto. Lo chiamano diritto, ma è questo il vero cinismo.
La cieca macchina dei timbri apposti da organismi tecnici in calce all’autorizzazione di un medicinale col quale s’introduce in Italia nientemeno che un nuovo modo di abortire pareva impossibile da arrestare, in barba a una legge dello Stato. Ma il Parlamento ha finalmente reagito mostrando di volersi riappropriare della sua funzione di rappresentanza della volontà popolare. E ha deciso di vederci chiaro, con una determinazione che l’ha condotto – ieri – a rimettere in discussione ciò che molti davano per acquisito. È arrivata così l’ineccepibile decisione di chiedere al governo una parola chiara sulla discutibilissima compatibilità della Ru486 con ciò che dispone la 194: una legge che, come tutti sanno, mai ci è piaciuta, ma che quantomeno detta alcune regole minime per evitare di aggiungere allo scempio dell’embrione lo sfregio sulla donna già ferita da una scelta drammatica come l’interruzione di una gravidanza. Perché la Ru486 non è l’«aborto dolce» o «meno invasivo», come vagheggia chi vorrebbe sbancare ogni forma di tutela della vita (caposaldo della Costituzione) in nome di una libertà 'liquida'. L’aborto chimico – in realtà – è una procedura lunga e dolorosa, un metodo brutale per mettere fine con le proprie mani a quella vita che germoglia nel grembo, fino all’umiliazione di fare tutto da sé e di vedere (in oltre la metà dei casi) quel poco che resta di una vita che poteva essere. Un dolore indicibile, ricacciato nell’angolo buio del bagno di casa, nella migliore delle ipotesi. La clandestinità riabilitata. È questo che dovremmo veder introdotto anche in Italia (e poco importa che altrove sia già così), col placet di uno Stato neutrale? O non è bene reagire e ragionare finché c’è possibilità, per esigere civilmente che ci si accorga della «banalità del male» quando ricompare in nuove, edulcorate forme dalle sentine della storia, per allungare la sua ombra sulla vita umana più fragile?
A questo orrore il Senato ha responsabilmente detto no, reggendo un formidabile e convergente urto politico, mediatico e culturale. La maggioranza della Commissione Sanità ha dunque chiesto che venga rispettata alla lettera la legge là dove dispone il ricovero ordinario sino al completamento dell’aborto, senza ricorrere a stratagemmi come il day hospital o le dimissioni 'volontarie' (magari incoraggiate da disinvolti ginecologi o fautori di un’ideologica deregulation).
Chi nelle manifestazioni tardo-femministe strilla all’intoccabilità della 194 abbia almeno il buon gusto di non pretenderne ora un’applicazione a intermittenza, e un sostanziale scardinamento. Di fronte a un intervento dell’istituzione democratica che s’ingegna per garantire la salute fisica e psicologica delle donne, insidiata da un nuovo 'farmaco' che porta morte, diventa sempre più incomprensibile il fuoco di sbarramento opposto da parlamentari che hanno parlato di decisione «cinica» e «insensata», di «forzatura politica», addirittura di «gioco scandaloso». In questo coro di lamentazioni pregiudiziali non s’è udito il coraggio moderno e libero di affrontare la sostanza della questione: la pillola abortiva è davvero un bene per le donne, o è solo un sistema illusoriamente sbrigativo per chiudere la 'pratica' aborto senza disturbare, fingendo che sia una vicenda sanitaria come tante? Il modo in cui lo si vorrebbe estendere in tutta Italia (una pillola e via, tutte a casa, per non appesantire i costi della sanità) sa tanto di ostinazione ideologica, con un sovrappiù di invettive agli 'oscurantisti' che si oppongono.
Una vita che palpita e il corpo delle donne usati per affermare un’assoluta e incontrollata libertà di aborto. Lo chiamano diritto, ma è questo il vero cinismo.
«Avvenire» del 27 novembre 2009
Nessun commento:
Posta un commento