Dopo lo studio di Bankitalia nuovi stimoli per le imprese
di Gabriele Gabrielli
Investire sull’educazione e sulla formazione può essere un affare. È un’opinione diffusa, anche se risulta difficile supportarla con evidenze concrete. In verità, c’è anche un consistente numero di persone che pensa, al contrario, sia molto più produttivo e conveniente dedicare energie, risorse e tempo al 'fare', piuttosto che a 'formarsi'. Si tratta di un dibattito antico, formatosi in secoli e secoli di storia e di trasformazioni economiche e sociali. Un confronto anche duro, talvolta, tra due culture e due approcci che oggi, in piena economia della conoscenza,
dovrebbe trovare sempre più numerosi motivi per un suo progressivo indebolimento, a vantaggio della tesi secondo cui investire in educazione rappresenta non soltanto una buona pratica, ma addirittura una condizione di sopravvivenza nell’epoca del 'capitalismo cognitivo'. Il recente studio della Banca d’Italia sui ritorni degli investimenti in istruzione sembra ora sdoganare definitivamente questa valutazione dimostrando, dati e tabelle alla mano, come questi ultimi siano molto redditizi e, quello che più conta, a vantaggio di molti. A cominciare dallo Stato che avrebbe, da un lato, un 'vantaggio fiscale' dalla migliore posizione professionale che andrebbero a ricoprire quanti investono nello studio e, dall’altro, meno oneri da esborsare per tutelare quanti perdono il lavoro e rimangono per lungo tempo disoccupati. Ma tornerebbe vantaggioso soprattutto per i giovani e le loro famiglie. L’investimento nello studio, infatti, secondo le analisi sviluppate dai ricercatori di via Nazionale, sarebbe molto redditizio in quanto assicurerebbe rendimenti medi annui che superano l’8%. Il ritorno appare davvero elevato ed assolutamente competitivo con i tassi di remunerazione corrisposti da altre forme di investimenti. Queste evidenze dovrebbero essere utilizzate e sviluppate, allora, per indirizzare politiche e decisioni non solo nell’ambito delle famiglie e in quello dei giovani, ma anche in altri due contesti.
La convinzione che la vera ricchezza nell’economia attuale sia rappresentata dalla conoscenza in tutte le sue molteplici espressioni e nella capacità di moltiplicarne il suo utilizzo senza timore che la stessa, a differenza di quanto avviene per gli altri beni, si consumi e si deprezzi, dovrebbe essere una leva formidabile per incentivare ed indirizzare in primo luogo la riforma del welfare.
Se la formazione è così importante, infatti, non c’è migliore politica di sicurezza sul lavoro di quella che investe in questa direzione. Per progettare sistemi, percorsi e strumenti adeguati ad assicurare risorse per quanti perdono il lavoro in modo che siano in grado di mantenere e sviluppare il proprio 'capitale cognitivo'. L’unico che è in grado di prospettare reali possibilità di impieghi futuri e sostenibili nel tempo. Nell’economia della conoscenza la formazione diventa così, anche per il contesto politico e legislativo che si occupa dei temi del lavoro, una forma essenziale di intervento per allargare in modo opportuno il perimetro delle 'tutele'.
Ma le evidenze che scaturiscono dallo studio di Bankitalia dovrebbero confortare anche le strategie adottate da quelle imprese che non considerano gli investimenti in formazione un lusso, ma una leva per assicurare sviluppo e crescita di valore all’azienda. Queste imprese, evidentemente, hanno già verificato concretamente che non c’è un rendimento più competitivo di questa forma allocativa di risorse. Ma non sono ancora così numerose.
L’investimento in conoscenza, dunque, è ad alta redditività per lo Stato, per le famiglie, per gli individui e per le imprese. E i costi del suo ammortamento, poi, possono con facilità essere spalmati non soltanto su più esercizi come accade per gli altri investimenti, ma addirittura su più 'generazioni', diluendone così di molto il loro carico. Un buon incentivo anche questo per investire in formazione e conoscenza.
dovrebbe trovare sempre più numerosi motivi per un suo progressivo indebolimento, a vantaggio della tesi secondo cui investire in educazione rappresenta non soltanto una buona pratica, ma addirittura una condizione di sopravvivenza nell’epoca del 'capitalismo cognitivo'. Il recente studio della Banca d’Italia sui ritorni degli investimenti in istruzione sembra ora sdoganare definitivamente questa valutazione dimostrando, dati e tabelle alla mano, come questi ultimi siano molto redditizi e, quello che più conta, a vantaggio di molti. A cominciare dallo Stato che avrebbe, da un lato, un 'vantaggio fiscale' dalla migliore posizione professionale che andrebbero a ricoprire quanti investono nello studio e, dall’altro, meno oneri da esborsare per tutelare quanti perdono il lavoro e rimangono per lungo tempo disoccupati. Ma tornerebbe vantaggioso soprattutto per i giovani e le loro famiglie. L’investimento nello studio, infatti, secondo le analisi sviluppate dai ricercatori di via Nazionale, sarebbe molto redditizio in quanto assicurerebbe rendimenti medi annui che superano l’8%. Il ritorno appare davvero elevato ed assolutamente competitivo con i tassi di remunerazione corrisposti da altre forme di investimenti. Queste evidenze dovrebbero essere utilizzate e sviluppate, allora, per indirizzare politiche e decisioni non solo nell’ambito delle famiglie e in quello dei giovani, ma anche in altri due contesti.
La convinzione che la vera ricchezza nell’economia attuale sia rappresentata dalla conoscenza in tutte le sue molteplici espressioni e nella capacità di moltiplicarne il suo utilizzo senza timore che la stessa, a differenza di quanto avviene per gli altri beni, si consumi e si deprezzi, dovrebbe essere una leva formidabile per incentivare ed indirizzare in primo luogo la riforma del welfare.
Se la formazione è così importante, infatti, non c’è migliore politica di sicurezza sul lavoro di quella che investe in questa direzione. Per progettare sistemi, percorsi e strumenti adeguati ad assicurare risorse per quanti perdono il lavoro in modo che siano in grado di mantenere e sviluppare il proprio 'capitale cognitivo'. L’unico che è in grado di prospettare reali possibilità di impieghi futuri e sostenibili nel tempo. Nell’economia della conoscenza la formazione diventa così, anche per il contesto politico e legislativo che si occupa dei temi del lavoro, una forma essenziale di intervento per allargare in modo opportuno il perimetro delle 'tutele'.
Ma le evidenze che scaturiscono dallo studio di Bankitalia dovrebbero confortare anche le strategie adottate da quelle imprese che non considerano gli investimenti in formazione un lusso, ma una leva per assicurare sviluppo e crescita di valore all’azienda. Queste imprese, evidentemente, hanno già verificato concretamente che non c’è un rendimento più competitivo di questa forma allocativa di risorse. Ma non sono ancora così numerose.
L’investimento in conoscenza, dunque, è ad alta redditività per lo Stato, per le famiglie, per gli individui e per le imprese. E i costi del suo ammortamento, poi, possono con facilità essere spalmati non soltanto su più esercizi come accade per gli altri investimenti, ma addirittura su più 'generazioni', diluendone così di molto il loro carico. Un buon incentivo anche questo per investire in formazione e conoscenza.
«Avvenire» del 20 settembre 2009
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