Gli adolescenti delle società occidentali vivono troppo nella bambagia e non sono più in grado di affrontare le difficoltà dell’esistenza: il j’accuse dello psicologo canadese Michael Ungar. «Incontro frotte di ragazzi, insicuri, incapaci di gestirsi. E totalmente ego-riferiti»
di Stefano Gulmanelli
Al riparo da ogni vera difficoltà della vita, al punto di non saperla affrontare quand’è il momento. È così che alleva le sue generazioni di giovani il mondo occidentale, con l’illusione di fare il loro bene. A lanciare l’allarme é lo psicologo canadese Michael Ungar, autore di un saggio, tradotto in varie lingue, che sta destando parecchio interesse fra educatori e genitori, Too safe for their own good ( « Troppo protetti per il loro bene » , McClelland & Stewart).
L’imputato principe del libro- studio sui giovani iperprotetti è il cosiddetto ' genitore elicottero', che tutto deve controllare nella vita dei figli, in modo da poter far loro da scudo contro le esperienze dolorose, arrivando a combattere le battaglie della vita al posto loro: « Ai nostri bambini forniamo costantemente copertine emotive ed elmetti psicologici che li potranno anche riparare da qualche smacco ma che tolgono loro l’opportunità d’imparare ad affrontare le sfide e le situazioni di disagio » . Di fatto, limitando la loro crescita. Perché, ricorda Ungar, non c’è crescita senza sofferenza; una verità che lo psicologo e terapeuta canadese riscontra puntualmente nella sua attività di direttore del Resilience Research Centre (www.resilienceproject.org), un network con punti di osservazione in Asia, Medio Oriente, Sudamerica, che studia come le comunità reagiscono alle avversità. « È in posti come la Palestina, il Sudafrica, il Tibet, la Colombia, che ho visto come ragazzini in condizioni svantaggiate riescono a superare ostacoli enormi; e ho capito che quello che oggi manca ai ' nostri' ragazzi è proprio la resilienza, la capacità e la determinazione a superare le difficoltà, piccole o grandi che siano » . Il divario gli appare evidente ogni volta che Ungar torna da una delle sue trasferte e rientra nella sua tranquilla cittadina di Halifax, in Canada, dove la gente gode di benessere e alta qualità di vita: «Nelle nostre società dove tutto è facile e a portata di mano stiamo creando individui che da adulti si troveranno svantaggiati, soprattutto quando si troveranno a competere con chi, a causa di un background ben diverso dal loro, è cresciuto sviluppando enormi capacità di adattamento e di resistenza alle condizioni avverse » . La presa d’atto di Ungar passa per i suoi stessi figli: « Mi rendo conto che i miei due ragazzi ( una figlia di 13 anni e un ragazzo di 16) sono cresciuti senza mai incontrare una vera difficoltà. E quando vado ' sul campo' vedo che chi ha dovuto affrontare percorsi più impervi ha sviluppato tutta una serie di abilità che ai miei ragazzi mancano » . Una situazione che nasce anche dal fatto che ormai abbiamo rovesciato le priorità circa quello che va garantito ai ragazzi: « In Paesi molto meno ricchi dei nostri ai bambini e ai ragazzi viene dato molto di ciò di cui ' hanno bisogno' ( affetto, esempi di compassione, di cura, di responsabilità nei confronti degli altri) e poco di ciò che ' vogliono'. Nelle nostre società purtroppo noi facciamo esattamente il contrario » . Come correre allora ai ripari per i figli dell’Occidente ricco e viziato? Per quei bambini che comunque hanno l’enorme fortuna di non doversi procacciare ogni giorno il cibo, di non vivere in zone di guerra o in favelas controllate dal crimine si può se non altro cominciare da cose piccole ma simbolicamente rilevanti: « Per esempio, esigere che si facciano il letto, apparecchino la tavola, facciano le lavatrici - e perché no, cucinino: almeno una volta la settimana dovrebbero essere in grado di preparare un pasto per l’intera famiglia, già all’età di 9- 10 anni » .
Tutte cose per le quali può essere utile dar vita ad un vero e proprio processo di negoziazione: « Quando arrivano in vista dei 10/ 11 anni, i ragazzi tendono a sfilarsi dalle incombenze e non hanno più voglia di aiutare ( prima lo fanno per sentirsi grandi) » dice Ungar.
L’espediente - con valenza educativa è quello di proporre un vero e proprio baratto: io faccio questo per te se tu fai quello per me. « Così iniziano a pensare in termini di reciprocità e fuori dal contesto del loro piccolo mondo di bambini » , dice Ungar, « e, contemporaneamente, fissiamo dei limiti alle pretese e delle regole cui conformarsi » .
Chiedere a chi sta affacciandosi alla vita sociale un contributo alla comunità di appartenenza è decisivo, sottolinea Ungar, perché lo obbliga ad assumersi una responsabilità di cui deve render conto. Il che - agli occhi dello stesso giovane - giustifica la sua stessa appartenenza alla collettività: « I ragazzi che si comportano in modo pericoloso ( guidando a pazza velocità, ubriacandosi, stordendosi con le droghe) e agiscono con scelleratezza ( bullismo, delinquenza), sono in realtà alla ricerca disperata di responsabilità » , spiega Ungar, che già che c’è vuole eliminare un malinteso assai diffuso: « Non è vero che i bulli hanno un basso senso di autostima. Al contrario, hanno grande considerazione di sé, ma completamente mal indirizzata » . A questi, ma anche a quanti si comportano in modo rude e maleducato «bisogna far pesare l’ingiustizia delle loro azioni » , dice Ungar, attaccando un altro mito moderno: la condiscendenza a qualsiasi costo per evitare ' traumi'. « Mostriamoci irritati, feriti, prendiamo le distanze. Certo, creeremo disagio, ma li aiuteremo a crescere » . L’evidenza invece è quella di frotte di ragazzi che arrivano in età post- adolescenziale «assolutamente 'disfunzionali', insicuri, incapaci di gestirsi. E totalmente ego-riferiti». D’altronde si raccoglie quello che seminiamo, conclude Ungar: « In Nord America, le dimensioni medie di una casa sono passate da 120 a 200 metri quadrati. Ogni bambino ha la sua tv, il proprio gameboy, il proprio computer. Quand’è che questi bambini imparano a condividere il telecomando? Quand’è che verrà loro di pensare in termini di ' noi' invece che di ' me'? »,
Al riparo da ogni vera difficoltà della vita, al punto di non saperla affrontare quand’è il momento. È così che alleva le sue generazioni di giovani il mondo occidentale, con l’illusione di fare il loro bene. A lanciare l’allarme é lo psicologo canadese Michael Ungar, autore di un saggio, tradotto in varie lingue, che sta destando parecchio interesse fra educatori e genitori, Too safe for their own good ( « Troppo protetti per il loro bene » , McClelland & Stewart).
L’imputato principe del libro- studio sui giovani iperprotetti è il cosiddetto ' genitore elicottero', che tutto deve controllare nella vita dei figli, in modo da poter far loro da scudo contro le esperienze dolorose, arrivando a combattere le battaglie della vita al posto loro: « Ai nostri bambini forniamo costantemente copertine emotive ed elmetti psicologici che li potranno anche riparare da qualche smacco ma che tolgono loro l’opportunità d’imparare ad affrontare le sfide e le situazioni di disagio » . Di fatto, limitando la loro crescita. Perché, ricorda Ungar, non c’è crescita senza sofferenza; una verità che lo psicologo e terapeuta canadese riscontra puntualmente nella sua attività di direttore del Resilience Research Centre (www.resilienceproject.org), un network con punti di osservazione in Asia, Medio Oriente, Sudamerica, che studia come le comunità reagiscono alle avversità. « È in posti come la Palestina, il Sudafrica, il Tibet, la Colombia, che ho visto come ragazzini in condizioni svantaggiate riescono a superare ostacoli enormi; e ho capito che quello che oggi manca ai ' nostri' ragazzi è proprio la resilienza, la capacità e la determinazione a superare le difficoltà, piccole o grandi che siano » . Il divario gli appare evidente ogni volta che Ungar torna da una delle sue trasferte e rientra nella sua tranquilla cittadina di Halifax, in Canada, dove la gente gode di benessere e alta qualità di vita: «Nelle nostre società dove tutto è facile e a portata di mano stiamo creando individui che da adulti si troveranno svantaggiati, soprattutto quando si troveranno a competere con chi, a causa di un background ben diverso dal loro, è cresciuto sviluppando enormi capacità di adattamento e di resistenza alle condizioni avverse » . La presa d’atto di Ungar passa per i suoi stessi figli: « Mi rendo conto che i miei due ragazzi ( una figlia di 13 anni e un ragazzo di 16) sono cresciuti senza mai incontrare una vera difficoltà. E quando vado ' sul campo' vedo che chi ha dovuto affrontare percorsi più impervi ha sviluppato tutta una serie di abilità che ai miei ragazzi mancano » . Una situazione che nasce anche dal fatto che ormai abbiamo rovesciato le priorità circa quello che va garantito ai ragazzi: « In Paesi molto meno ricchi dei nostri ai bambini e ai ragazzi viene dato molto di ciò di cui ' hanno bisogno' ( affetto, esempi di compassione, di cura, di responsabilità nei confronti degli altri) e poco di ciò che ' vogliono'. Nelle nostre società purtroppo noi facciamo esattamente il contrario » . Come correre allora ai ripari per i figli dell’Occidente ricco e viziato? Per quei bambini che comunque hanno l’enorme fortuna di non doversi procacciare ogni giorno il cibo, di non vivere in zone di guerra o in favelas controllate dal crimine si può se non altro cominciare da cose piccole ma simbolicamente rilevanti: « Per esempio, esigere che si facciano il letto, apparecchino la tavola, facciano le lavatrici - e perché no, cucinino: almeno una volta la settimana dovrebbero essere in grado di preparare un pasto per l’intera famiglia, già all’età di 9- 10 anni » .
Tutte cose per le quali può essere utile dar vita ad un vero e proprio processo di negoziazione: « Quando arrivano in vista dei 10/ 11 anni, i ragazzi tendono a sfilarsi dalle incombenze e non hanno più voglia di aiutare ( prima lo fanno per sentirsi grandi) » dice Ungar.
L’espediente - con valenza educativa è quello di proporre un vero e proprio baratto: io faccio questo per te se tu fai quello per me. « Così iniziano a pensare in termini di reciprocità e fuori dal contesto del loro piccolo mondo di bambini » , dice Ungar, « e, contemporaneamente, fissiamo dei limiti alle pretese e delle regole cui conformarsi » .
Chiedere a chi sta affacciandosi alla vita sociale un contributo alla comunità di appartenenza è decisivo, sottolinea Ungar, perché lo obbliga ad assumersi una responsabilità di cui deve render conto. Il che - agli occhi dello stesso giovane - giustifica la sua stessa appartenenza alla collettività: « I ragazzi che si comportano in modo pericoloso ( guidando a pazza velocità, ubriacandosi, stordendosi con le droghe) e agiscono con scelleratezza ( bullismo, delinquenza), sono in realtà alla ricerca disperata di responsabilità » , spiega Ungar, che già che c’è vuole eliminare un malinteso assai diffuso: « Non è vero che i bulli hanno un basso senso di autostima. Al contrario, hanno grande considerazione di sé, ma completamente mal indirizzata » . A questi, ma anche a quanti si comportano in modo rude e maleducato «bisogna far pesare l’ingiustizia delle loro azioni » , dice Ungar, attaccando un altro mito moderno: la condiscendenza a qualsiasi costo per evitare ' traumi'. « Mostriamoci irritati, feriti, prendiamo le distanze. Certo, creeremo disagio, ma li aiuteremo a crescere » . L’evidenza invece è quella di frotte di ragazzi che arrivano in età post- adolescenziale «assolutamente 'disfunzionali', insicuri, incapaci di gestirsi. E totalmente ego-riferiti». D’altronde si raccoglie quello che seminiamo, conclude Ungar: « In Nord America, le dimensioni medie di una casa sono passate da 120 a 200 metri quadrati. Ogni bambino ha la sua tv, il proprio gameboy, il proprio computer. Quand’è che questi bambini imparano a condividere il telecomando? Quand’è che verrà loro di pensare in termini di ' noi' invece che di ' me'? »,
«Avvenire» del 26 novembre 2009
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