di Maurizio Crippa
Philip Roth, non uno qualsiasi. Anche lui in Italia “verrebbe considerato un disertore.
Un ‘terzista’, addirittura”.
Un tiepido, “ed è noto che, nel quartier generale giacobino, i ‘tiepidi’ erano considerati meritevoli di ghigliottina”.
Si sveglia una domenica mattina, una di quelle domeniche mattina tiepide fatte di giornali e caffé, e scopre di essere il nuovo reprobo, il “terzista”, la schifezza “amorale” che Diderot avrebbe vomitato dalla sua bocca.
Non si fa certo intimidire, i modelli letterari alti ce li ha pure lui.
Serve un terzista da appendere alla forca del vostro catechismo primitivo e dogmatico?
Provate con Philip Roth, che ha avuto i coraggio di dirsi “un obamiano deluso”.
Nessuno, in America, ha pensato di dargli di voltagabbana. O di terzista, che è molto peggio.
Invece Eugenio Scalfari, “il più autorevole e intransigente della guerra santa al ‘terzista’” nel suo sermone domenicale l’ha presa larga, e come sempre un paio d’ottave più alta, ed è partito con Diderot.
Diderot che schifa “il tipo umano (disumano)… al giorno d’oggi sempre più numeroso”, che perde “la nozione del bene e del male”.
Insomma la “genia che Berlusconi ha fatto di tutto per far crescere”.
Ma il bersaglio grosso è la malapianta terzista.
Anzi direttamente Pigi Battista, vicedirettore del Corriere della Sera, reo di aver posto una cruciale domanda: ma che fine faranno, un giorno, tutti quelli che da anni campano solo sull’antiberlusconismo?
Sullo schema tribale del nemico-amico, senza mai la capacità di fare i conti anche con la propria parte?
Apriti cielo, ecco il “tradimento del chierico”, la peggiore delle amoralità: rifiutarsi apertamente – gesto lucido, laico, intellettualmente motivato – di schierarsi in base al preconcetto.
Dice Scalfari di Battista, scivolando alquanto sul bon ton: “Che faranno i revisionisti di mestiere… E i terzisti? Avranno ancora qualcosa da scrivere? Comunque un posto a tavola non si nega a nessuno che abbia una buona scrittura”.
Il terzista non è meno colto, anche se se la tira meno: ha il senso del ridicolo.
Va fiero dei baffi e del tono mai tranchant.
Per qualche tempo ha saputo bucare il video pure col pulloverino, senza tracotanza.
Non è di quelli che si “sentono investiti di una missione salvifica di sradicare il Male”.
Ma è tutt’altro che un uomo, e un intellettuale, remissivo.
Batte e ribatte, sul Corriere, colpo su colpo. Non accetta che “in Italia il bipolarismo viene inteso come una frontiera antropologica”.
Detesta l’ideologia falsamente bipolare per cui “ogni parola spesa non per espellere i malvagi”, viene considerata una diserzione: “Meglio, molto meglio, Philip Roth”.
E prima di Roth ci sono stati altri “meglio”, per Pigi Battista.
A partire da quando cominciò “a uccidere il padre”, come racconta a volte con tono dolente, cioè a fare i conti con l’ideologia gruppettara di cui si era inzuppato in gioventù.
E ha fatto la lunga camminata nel deserto, con i pochi amici e i maestri disponibili, come Lucio Colletti, che in Italia ebbero il coraggio di riflettere su quel fallimento.
“A me sta più simpatico chi ha un atteggiamento dissacrante di chi vuole custodire l’ortodossia” ha detto una volta: “In Francia si è spaccato un intero gruppo intellettuale su Solgenitzyn… Jean-Paul Sartre, quando arrivarono i boat-people vietnamiti, andò a chiedere scusa a Raymond Aron. In Italia solo Lucio Colletti si congedò dal marxismo”.
Tutti gli altri, stavano a “Cancellare le tracce”, come ha intitolato un suo bel libro dedicato a fare la polvere ai “pulpiti inattaccabili e serissimi”, per ricostruire la storia impudica di una gran parte della nostra classe politica e intellettuale dopo il fascismo.
Altro che prono terzismo. Il giornalismo come una forma di memoria, una vita passata a sparigliare, a setacciare il “parolaio” dell’ideologia. E il dibattito delle idee come gesto di fiducia nell’antidogmatismo. Che sono poi la cifra di alcuni compagni di viaggio di Battista, come Ernesto Galli della Loggia, come Paolo Mieli.
Cultori di un “terzismo intellettuale” che è un po’ anche il trait-d’union di quel gruppetto di intellettuali-editorialisti (Panebianco, Ostellino) del Corriere che oggi sono il vero obiettivo della guerra che Repubblica, di cui l’attacco di Scalfari a Battista è l’episodio più recente.
Che non è guerra solo al (legittimo) rifiuto di schierarsi di un giornale.
Ma proprio a chi in questi anni ha sempre sostenuto un’idea “terza” della politica, e la necessità di trovare forme di mediazione e d’uscita dalla guerra civile continua, specie giudiziaria.
Forse quegli stessi “terzisti” oggi nutrono dubbi sulla praticabilità della propria posizione – ieri Panebianco rifletteva sulla crisi del bipolarismo – ma non sono certo disposti ad accettare i metodi della falsificazione di coloro che si sentono investiti dalla missione di “sradicare il Male”.
E non hanno intenzione di pietire un posto alla tavola dei presunti moralizzatori.
Un ‘terzista’, addirittura”.
Un tiepido, “ed è noto che, nel quartier generale giacobino, i ‘tiepidi’ erano considerati meritevoli di ghigliottina”.
Si sveglia una domenica mattina, una di quelle domeniche mattina tiepide fatte di giornali e caffé, e scopre di essere il nuovo reprobo, il “terzista”, la schifezza “amorale” che Diderot avrebbe vomitato dalla sua bocca.
Non si fa certo intimidire, i modelli letterari alti ce li ha pure lui.
Serve un terzista da appendere alla forca del vostro catechismo primitivo e dogmatico?
Provate con Philip Roth, che ha avuto i coraggio di dirsi “un obamiano deluso”.
Nessuno, in America, ha pensato di dargli di voltagabbana. O di terzista, che è molto peggio.
Invece Eugenio Scalfari, “il più autorevole e intransigente della guerra santa al ‘terzista’” nel suo sermone domenicale l’ha presa larga, e come sempre un paio d’ottave più alta, ed è partito con Diderot.
Diderot che schifa “il tipo umano (disumano)… al giorno d’oggi sempre più numeroso”, che perde “la nozione del bene e del male”.
Insomma la “genia che Berlusconi ha fatto di tutto per far crescere”.
Ma il bersaglio grosso è la malapianta terzista.
Anzi direttamente Pigi Battista, vicedirettore del Corriere della Sera, reo di aver posto una cruciale domanda: ma che fine faranno, un giorno, tutti quelli che da anni campano solo sull’antiberlusconismo?
Sullo schema tribale del nemico-amico, senza mai la capacità di fare i conti anche con la propria parte?
Apriti cielo, ecco il “tradimento del chierico”, la peggiore delle amoralità: rifiutarsi apertamente – gesto lucido, laico, intellettualmente motivato – di schierarsi in base al preconcetto.
Dice Scalfari di Battista, scivolando alquanto sul bon ton: “Che faranno i revisionisti di mestiere… E i terzisti? Avranno ancora qualcosa da scrivere? Comunque un posto a tavola non si nega a nessuno che abbia una buona scrittura”.
Il terzista non è meno colto, anche se se la tira meno: ha il senso del ridicolo.
Va fiero dei baffi e del tono mai tranchant.
Per qualche tempo ha saputo bucare il video pure col pulloverino, senza tracotanza.
Non è di quelli che si “sentono investiti di una missione salvifica di sradicare il Male”.
Ma è tutt’altro che un uomo, e un intellettuale, remissivo.
Batte e ribatte, sul Corriere, colpo su colpo. Non accetta che “in Italia il bipolarismo viene inteso come una frontiera antropologica”.
Detesta l’ideologia falsamente bipolare per cui “ogni parola spesa non per espellere i malvagi”, viene considerata una diserzione: “Meglio, molto meglio, Philip Roth”.
E prima di Roth ci sono stati altri “meglio”, per Pigi Battista.
A partire da quando cominciò “a uccidere il padre”, come racconta a volte con tono dolente, cioè a fare i conti con l’ideologia gruppettara di cui si era inzuppato in gioventù.
E ha fatto la lunga camminata nel deserto, con i pochi amici e i maestri disponibili, come Lucio Colletti, che in Italia ebbero il coraggio di riflettere su quel fallimento.
“A me sta più simpatico chi ha un atteggiamento dissacrante di chi vuole custodire l’ortodossia” ha detto una volta: “In Francia si è spaccato un intero gruppo intellettuale su Solgenitzyn… Jean-Paul Sartre, quando arrivarono i boat-people vietnamiti, andò a chiedere scusa a Raymond Aron. In Italia solo Lucio Colletti si congedò dal marxismo”.
Tutti gli altri, stavano a “Cancellare le tracce”, come ha intitolato un suo bel libro dedicato a fare la polvere ai “pulpiti inattaccabili e serissimi”, per ricostruire la storia impudica di una gran parte della nostra classe politica e intellettuale dopo il fascismo.
Altro che prono terzismo. Il giornalismo come una forma di memoria, una vita passata a sparigliare, a setacciare il “parolaio” dell’ideologia. E il dibattito delle idee come gesto di fiducia nell’antidogmatismo. Che sono poi la cifra di alcuni compagni di viaggio di Battista, come Ernesto Galli della Loggia, come Paolo Mieli.
Cultori di un “terzismo intellettuale” che è un po’ anche il trait-d’union di quel gruppetto di intellettuali-editorialisti (Panebianco, Ostellino) del Corriere che oggi sono il vero obiettivo della guerra che Repubblica, di cui l’attacco di Scalfari a Battista è l’episodio più recente.
Che non è guerra solo al (legittimo) rifiuto di schierarsi di un giornale.
Ma proprio a chi in questi anni ha sempre sostenuto un’idea “terza” della politica, e la necessità di trovare forme di mediazione e d’uscita dalla guerra civile continua, specie giudiziaria.
Forse quegli stessi “terzisti” oggi nutrono dubbi sulla praticabilità della propria posizione – ieri Panebianco rifletteva sulla crisi del bipolarismo – ma non sono certo disposti ad accettare i metodi della falsificazione di coloro che si sentono investiti dalla missione di “sradicare il Male”.
E non hanno intenzione di pietire un posto alla tavola dei presunti moralizzatori.
«Il Foglio» del 26 novembre 2009
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