di Francesco Avolio
Il nostro Paese è formato da oltre ottomila Comuni, in grande maggioranza piccoli. Ognuno di questi centri abitati, spesso antichi, «sedimentati» nel territorio, rappresenta l’insostituibile tassello di uno straordinario mosaico: il Paese europeo più ricco e differenziato dal punto di vista delle varietà di lingua. Come ha osservato acutamente, anni fa, Tullio De Mauro, per ritrovare una diversità linguistica altrettanto «lussureggiante» bisogna spingersi fino al Caucaso o al subcontinente indiano.
Si tratta non soltanto di un fatto di «quantità», ma di una ancora più interessante distanza strutturale: le nostre parlate non solo sono tante, ma non potrebbero essere più diverse fra loro, e spesso la distanza linguistica non è per nulla in rapporto con quella geografica (così accade a esempio, fra Bologna e Firenze, fra Roma e Tivoli). Uno dei grandi linguisti del Novecento, Giovan Battista Pellegrini, ha dimostrato, ad esempio, che la distanza linguistica fra l’italiano e alcune varietà dialettali lucane è addirittura maggiore di quella che passa fra l’italiano e il francese o il portoghese. Ogni discorso su quelli che un uso antico e ben radicato ha denominato e ancora denomina «dialetti» non può che partire da queste constatazioni.
Ovviamente, varie sono le cause del permanere nel tempo di questa varietà. Intanto, però, possiamo forse provare a rispondere a un primo interrogativo: la ricchezza idiomatica, cioè linguistica, dell’Italia è un relitto del passato, destinato a estinguersi con il tempo, o un patrimonio vivo, che occorre ancora studiare e valorizzare? La corretta prospettiva in cui occorre muoversi è la seconda, e tuttavia è bene chiarire perché ciò che pensano in molti, vale a dire che i dialetti siano solo un relitto del passato, non corrisponde quasi mai al vero.
Già nel 1985 un grande linguista, Giorgio Raimondo Cardona, rispondendo alle domande del giovane antropologo Valerio Petrarca osservava: «È opinione corrente che i dialetti siano in via di estinzione in favore dell’italiano (e su questo c’è chi piange nostalgicamente e chi esulta progressisticamente), ma confesso che non riesco a capire per qual motivo si sia tutti d’accordo nel ripetere una constatazione che non poggia su nessun fatto. Basta, non dico un’inchiesta in una zona rurale, ma un giro in tram in una qualsiasi città italiana per rendersi conto che il dialetto, naturalmente con un grado variabile di italianizzazione, è una realtà quotidiana ovunque. Quel che cambia o è già cambiato sono i modi di vita e naturalmente, poiché questi si vanno livellando da un capo all’altro della Penisola, anche una parte della lingua dovrà adeguarsi di conseguenza».
Insomma, si parla da così tanto tempo della morte dei dialetti, che alla fine ci si è convinti che questa sia, sempre e dovunque, la sola verità. Certo, esistono zone d’Italia dove i dialetti hanno subito un regresso anche vistoso (a esempio nell’area milanese, o in alcune zone dell’Italia centrale dove la loro vicinanza all’italiano favorisce una notevole «commistione»), ma nella maggior parte delle regioni e dei Comuni la tenuta delle parlate locali è buona, perfino fra i giovani, che continuano a farne uso, come rivelano oggi anche tanti siti Internet e blog in cui il dialetto emerge o riemerge nei modi più imprevedibili.
La vitalità dei dialetti, naturalmente, non coincide, né potrebbe, con una loro «immobilità», con l’assenza completa di innovazioni e trasformazioni (che, semplicemente, ci metterebbe davanti a delle lingue morte), e non è neppure da ricollegarsi sempre e solo a situazioni socio-economicamente stagnanti o sottosviluppate. Non serve, dunque, piangere nostalgicamente, perché spesso non è necessario; si può invece cercare di prendere coscienza del fatto che le tradizioni linguistiche – tutte, senza scale gerarchiche o punteggi – sono parte integrante dei nostri beni culturali e, anzi, appartengono a quella particolare categoria che oggi viene spesso definita, anche a livello ufficiale, «beni immateriali».
La diversità linguistica del nostro Paese non ha impedito l’esistenza, e la ricerca, di fattori comuni e unificanti. Molto prima che l’unità politica si concretizzasse, infatti, le varie regioni d’Italia strinsero fra loro legami duraturi proprio attraverso la lingua. In modo quasi paradossale, dunque, il Paese caratterizzato dalla maggiore differenziazione delle varietà linguistiche è anche quello che proprio nella lingua ha trovato il primo, e uno dei fondamentali fattori di unità. In un certo senso, in Italia, è la lingua che ha fatto la nazione, piuttosto che il contrario, com’è avvenuto in tutti quegli Stati (la maggioranza) in cui l’unificazione politica ha preceduto, condizionandola, quella linguistica.
E siamo ancora lontani dal registrare la totale scomparsa non solo di soggetti e gruppi che affermano di parlare «tanto italiano quanto dialetto», ma addirittura di coloro che si dichiarano esclusivamente dialettofoni. Non si può non osservare che, come il dialetto ha potuto «farsi le ossa» proprio grazie a una lunga, plurisecolare convivenza con almeno alcuni livelli di italiano, così questi ultimi hanno paradossalmente «difeso anche il dialetto. Sono proprio coloro a cui il possesso della lingua ufficiale ha dato sicurezza – scrive Gianna Marcato – , che gli hanno impedito di fare una brutta fine. La padronanza dell’italiano ha esorcizzato i fantasmi del passato, ha consentito di guardare al dialetto nella sua realtà di piccola innocua lingua locale, che ben poteva essere lasciata almeno vivacchiare accanto alla lingua ufficiale.
E oggi il dialetto non fa più paura a nessuno, o quasi». Italiano e dialetti convivono da secoli, ed è questa convivenza che occorre promuovere e perseguire, rendendo tutti più consapevoli del suo valore, sia in termini generali sia in riferimento allo stesso profilo identitario del Paese.
Si tratta non soltanto di un fatto di «quantità», ma di una ancora più interessante distanza strutturale: le nostre parlate non solo sono tante, ma non potrebbero essere più diverse fra loro, e spesso la distanza linguistica non è per nulla in rapporto con quella geografica (così accade a esempio, fra Bologna e Firenze, fra Roma e Tivoli). Uno dei grandi linguisti del Novecento, Giovan Battista Pellegrini, ha dimostrato, ad esempio, che la distanza linguistica fra l’italiano e alcune varietà dialettali lucane è addirittura maggiore di quella che passa fra l’italiano e il francese o il portoghese. Ogni discorso su quelli che un uso antico e ben radicato ha denominato e ancora denomina «dialetti» non può che partire da queste constatazioni.
Ovviamente, varie sono le cause del permanere nel tempo di questa varietà. Intanto, però, possiamo forse provare a rispondere a un primo interrogativo: la ricchezza idiomatica, cioè linguistica, dell’Italia è un relitto del passato, destinato a estinguersi con il tempo, o un patrimonio vivo, che occorre ancora studiare e valorizzare? La corretta prospettiva in cui occorre muoversi è la seconda, e tuttavia è bene chiarire perché ciò che pensano in molti, vale a dire che i dialetti siano solo un relitto del passato, non corrisponde quasi mai al vero.
Già nel 1985 un grande linguista, Giorgio Raimondo Cardona, rispondendo alle domande del giovane antropologo Valerio Petrarca osservava: «È opinione corrente che i dialetti siano in via di estinzione in favore dell’italiano (e su questo c’è chi piange nostalgicamente e chi esulta progressisticamente), ma confesso che non riesco a capire per qual motivo si sia tutti d’accordo nel ripetere una constatazione che non poggia su nessun fatto. Basta, non dico un’inchiesta in una zona rurale, ma un giro in tram in una qualsiasi città italiana per rendersi conto che il dialetto, naturalmente con un grado variabile di italianizzazione, è una realtà quotidiana ovunque. Quel che cambia o è già cambiato sono i modi di vita e naturalmente, poiché questi si vanno livellando da un capo all’altro della Penisola, anche una parte della lingua dovrà adeguarsi di conseguenza».
Insomma, si parla da così tanto tempo della morte dei dialetti, che alla fine ci si è convinti che questa sia, sempre e dovunque, la sola verità. Certo, esistono zone d’Italia dove i dialetti hanno subito un regresso anche vistoso (a esempio nell’area milanese, o in alcune zone dell’Italia centrale dove la loro vicinanza all’italiano favorisce una notevole «commistione»), ma nella maggior parte delle regioni e dei Comuni la tenuta delle parlate locali è buona, perfino fra i giovani, che continuano a farne uso, come rivelano oggi anche tanti siti Internet e blog in cui il dialetto emerge o riemerge nei modi più imprevedibili.
La vitalità dei dialetti, naturalmente, non coincide, né potrebbe, con una loro «immobilità», con l’assenza completa di innovazioni e trasformazioni (che, semplicemente, ci metterebbe davanti a delle lingue morte), e non è neppure da ricollegarsi sempre e solo a situazioni socio-economicamente stagnanti o sottosviluppate. Non serve, dunque, piangere nostalgicamente, perché spesso non è necessario; si può invece cercare di prendere coscienza del fatto che le tradizioni linguistiche – tutte, senza scale gerarchiche o punteggi – sono parte integrante dei nostri beni culturali e, anzi, appartengono a quella particolare categoria che oggi viene spesso definita, anche a livello ufficiale, «beni immateriali».
La diversità linguistica del nostro Paese non ha impedito l’esistenza, e la ricerca, di fattori comuni e unificanti. Molto prima che l’unità politica si concretizzasse, infatti, le varie regioni d’Italia strinsero fra loro legami duraturi proprio attraverso la lingua. In modo quasi paradossale, dunque, il Paese caratterizzato dalla maggiore differenziazione delle varietà linguistiche è anche quello che proprio nella lingua ha trovato il primo, e uno dei fondamentali fattori di unità. In un certo senso, in Italia, è la lingua che ha fatto la nazione, piuttosto che il contrario, com’è avvenuto in tutti quegli Stati (la maggioranza) in cui l’unificazione politica ha preceduto, condizionandola, quella linguistica.
E siamo ancora lontani dal registrare la totale scomparsa non solo di soggetti e gruppi che affermano di parlare «tanto italiano quanto dialetto», ma addirittura di coloro che si dichiarano esclusivamente dialettofoni. Non si può non osservare che, come il dialetto ha potuto «farsi le ossa» proprio grazie a una lunga, plurisecolare convivenza con almeno alcuni livelli di italiano, così questi ultimi hanno paradossalmente «difeso anche il dialetto. Sono proprio coloro a cui il possesso della lingua ufficiale ha dato sicurezza – scrive Gianna Marcato – , che gli hanno impedito di fare una brutta fine. La padronanza dell’italiano ha esorcizzato i fantasmi del passato, ha consentito di guardare al dialetto nella sua realtà di piccola innocua lingua locale, che ben poteva essere lasciata almeno vivacchiare accanto alla lingua ufficiale.
E oggi il dialetto non fa più paura a nessuno, o quasi». Italiano e dialetti convivono da secoli, ed è questa convivenza che occorre promuovere e perseguire, rendendo tutti più consapevoli del suo valore, sia in termini generali sia in riferimento allo stesso profilo identitario del Paese.
«Avvenire» del 25 novembre 2009
Nessun commento:
Posta un commento