Da Castellitto a Calatrava, il mondo della cultura va a udienza da Ratzinger. Che critica il cinismo disincantato della modernità
di Luca Doninelli
Dalla Sala stampa mi arriva l’indiscrezione secondo cui moltissimi artisti esclusi hanno fatto il diavolo a quattro per essere invitati. Ci sono state proteste vibrate. Reazioni indignate o stupefatte. Ragazzi, si dà il caso che le liste di convocazione siano fatte così: ingiuste per natura. Sapeste quante volte è toccato a me.
Anche l’ultima lista, quella giusta, non mancherà di suscitare polemiche. Ne fa fede il Giudizio universale che campeggia di fronte a noi non come una minaccia, ma come un promemoria. Saremo nella lista buona? Monsignore Ravasi ci chiamerà, quel giorno? Bisogna provarci. Il guaio è che noi quaggiù, col calcagno immerso nella melma della storia, distinguiamo a fatica i sentieri buoni da quelli che finiscono in niente. Eppure i segni ci sono, le indicazioni esistono. Parlo con artisti molto laici. Il bisogno esiste. La bellezza, mi spiega il fotografo Gabriele Basilico, è stata estromessa dall’estetica moderna, che la considera retorica. Ma era giusto che tornasse al centro del discorso, non la si può togliere di mezzo: retorica o no, il fuoco è lì.
Quanta storia, a Roma! Camminando lungo la via Cola di Rienzo verso la basilica di S. Pietro, le solite statue viventi - l’angelo con le ali, Dante Alighieri, la fatina ecc. - non riescono a star ferme nei loro abiti bizzarri. Sotto la tinta verde o rosa, le loro facce si contorcono. Sono tutti stranieri, e rumorosamente chiedono soldi per sé, per i loro figli. A star fermi come statue proprio non ce la fanno. La crisi forse starà passando per i ricchi, ma i poveri ci sono dentro, le fette di torta sono più piccole per tutti, figuriamoci per quelli a cui toccavano già solo le briciole. E poi le mura vaticane, austere e ingiuste di un’ingiustizia che non si è mai risolta. Roma assomma cicatrici vecchie e nuove.
Ma c’è qualcosa che oltrepassa le brutture della storia. Nel suo discorso Benedetto XVI, richiamandosi a quanto detto in proposito dai suoi predecessori Paolo VI (che sognò una nuova, grande stagione di collaborazione tra la Chiesa e gli artisti) e Giovanni Paolo II, usa la parola più importante: speranza. L’uomo non è fatto per il disordine, per la bruttezza, per il caos. C’è un bisogno insopprimibile, una speranza («ineffabile» disse Rilke, perché per l’uomo moderno sperare è quasi una vergogna), alla cui voce nemmeno l’artista più moderno e cinico - se è un artista - può chiudere le orecchie. La bellezza è una ferita. Ne parla Michelangelo qui, nella Cappella Sistina, mostrando quel doloroso bisogno come la legge stessa della storia, dall’alfa della creazione all’omega del giudizio. La bellezza è un segno a sangue che sospinge l’uomo «verso l’alto», cioè gli fa desiderare di essere migliore, lo orienta verso un bene mai immaginato prima, come magistralmente racconta Dostoevskij in Delitto e castigo.
Tra i grandi citati dal Papa non poteva mancare il suo grande maestro, il teologo svizzero Von Balthasar, che fa della bellezza la prima parola del vocabolario umano. Non l’arte, non la bellezza prodotta dall’uomo, ma l’irrompere di qualcosa che mette nel cuore il desiderio di un destino finalmente umano. Questa è la sfida che gli spiriti più sensibili hanno saputo cogliere nelle parole del Papa. Nomi importanti di poeti, scrittori, architetti, fotografi, registi, attori sfilano nella Sistina, vero ombelico di tutta la storia dell’arte, dove tanta storia umana è stata ed è decisa. Distinguo Bob Wilson, Tadao Endo, Santiago Calatrava, Mario Botta, Emilio Isgrò, ma anche Lino Banfi, Monica Guerritore, Giacomo Poretti (sì, quello del grande trio), e un tuffo al cuore mi prende quando vedo Terence Hill. E poi vedo Andrea Bocelli, Riccardo Cocciante, Antonello Venditti, Giosetta Fioroni, Nanni Moretti.
Non era affatto scontato che tutte queste persone (e molte altre che non ho riconosciuto) accettassero parole tutte centrate sull’ineluttabilità della speranza, sulla ferita della bellezza. Siamo diventati tutti così moderni, così scettici! Invece il testo del discorso è andato a ruba, e durante il ricevimento se ne è molto parlato, con grande apertura d’interesse. Merito del Papa, certo. E merito anche di monsignor Ravasi, milanese prestato alla capitale, che ha pensato e fortemente voluto questo incontro, sfidando l’ira degli esclusi.
Ma io credo che il successo di questo momento venga da più lontano. La mia impressione è che il mondo della cultura e dell’arte non ne possa più di questa modernità così deludente, dell’arte ridotta a «esercizio provocatorio e autoreferenziale» (Ravasi). Vengono alla mente le parole che Roland Barthes, guru della modernità, scrisse dopo la morte della madre: «D’un tratto, non m’importa più di essere moderno». Basta con questa gara a chi è più cinico, più provocatorio, a chi sa stare meglio sotto i riflettori. Basta con quest’arte ridotta a gioco per ricchi. Basta con questo mondo finto, in cui la massima aspirazione per un artista sembra essere quella di diventare un pubblicitario, un creatore di mode, un intrattenitore, un inventore di sogni.
La storia, però, continua il suo cammino verso il Giudizio universale, oppure verso il nulla senza alcun giudizio. Se si vuole che il senso di questo incontro non vada perduto occorre fare in fretta. Il pallino del gioco ora è nelle mani di chi ha lanciato il sasso, ossia della Chiesa. Si tratta di passare alla controffensiva, sfidare le parole di chi detiene il potere e dare inizio a una nuova battaglia per la cultura e per la libertà. Contrastare, se necessario, il potere con un altro potere. Far crescere, con azioni concrete e mirate, quel germe di speranza che l’incontro ha fatto balenare in tutti.
E scusatemi se non vi parlo del ricevimento, degli abiti delle signore, del buffet, del menu, dei cocktail, delle cravatte. Di solito si fa così, quando non c’è nient’altro di cui parlare.
Anche l’ultima lista, quella giusta, non mancherà di suscitare polemiche. Ne fa fede il Giudizio universale che campeggia di fronte a noi non come una minaccia, ma come un promemoria. Saremo nella lista buona? Monsignore Ravasi ci chiamerà, quel giorno? Bisogna provarci. Il guaio è che noi quaggiù, col calcagno immerso nella melma della storia, distinguiamo a fatica i sentieri buoni da quelli che finiscono in niente. Eppure i segni ci sono, le indicazioni esistono. Parlo con artisti molto laici. Il bisogno esiste. La bellezza, mi spiega il fotografo Gabriele Basilico, è stata estromessa dall’estetica moderna, che la considera retorica. Ma era giusto che tornasse al centro del discorso, non la si può togliere di mezzo: retorica o no, il fuoco è lì.
Quanta storia, a Roma! Camminando lungo la via Cola di Rienzo verso la basilica di S. Pietro, le solite statue viventi - l’angelo con le ali, Dante Alighieri, la fatina ecc. - non riescono a star ferme nei loro abiti bizzarri. Sotto la tinta verde o rosa, le loro facce si contorcono. Sono tutti stranieri, e rumorosamente chiedono soldi per sé, per i loro figli. A star fermi come statue proprio non ce la fanno. La crisi forse starà passando per i ricchi, ma i poveri ci sono dentro, le fette di torta sono più piccole per tutti, figuriamoci per quelli a cui toccavano già solo le briciole. E poi le mura vaticane, austere e ingiuste di un’ingiustizia che non si è mai risolta. Roma assomma cicatrici vecchie e nuove.
Ma c’è qualcosa che oltrepassa le brutture della storia. Nel suo discorso Benedetto XVI, richiamandosi a quanto detto in proposito dai suoi predecessori Paolo VI (che sognò una nuova, grande stagione di collaborazione tra la Chiesa e gli artisti) e Giovanni Paolo II, usa la parola più importante: speranza. L’uomo non è fatto per il disordine, per la bruttezza, per il caos. C’è un bisogno insopprimibile, una speranza («ineffabile» disse Rilke, perché per l’uomo moderno sperare è quasi una vergogna), alla cui voce nemmeno l’artista più moderno e cinico - se è un artista - può chiudere le orecchie. La bellezza è una ferita. Ne parla Michelangelo qui, nella Cappella Sistina, mostrando quel doloroso bisogno come la legge stessa della storia, dall’alfa della creazione all’omega del giudizio. La bellezza è un segno a sangue che sospinge l’uomo «verso l’alto», cioè gli fa desiderare di essere migliore, lo orienta verso un bene mai immaginato prima, come magistralmente racconta Dostoevskij in Delitto e castigo.
Tra i grandi citati dal Papa non poteva mancare il suo grande maestro, il teologo svizzero Von Balthasar, che fa della bellezza la prima parola del vocabolario umano. Non l’arte, non la bellezza prodotta dall’uomo, ma l’irrompere di qualcosa che mette nel cuore il desiderio di un destino finalmente umano. Questa è la sfida che gli spiriti più sensibili hanno saputo cogliere nelle parole del Papa. Nomi importanti di poeti, scrittori, architetti, fotografi, registi, attori sfilano nella Sistina, vero ombelico di tutta la storia dell’arte, dove tanta storia umana è stata ed è decisa. Distinguo Bob Wilson, Tadao Endo, Santiago Calatrava, Mario Botta, Emilio Isgrò, ma anche Lino Banfi, Monica Guerritore, Giacomo Poretti (sì, quello del grande trio), e un tuffo al cuore mi prende quando vedo Terence Hill. E poi vedo Andrea Bocelli, Riccardo Cocciante, Antonello Venditti, Giosetta Fioroni, Nanni Moretti.
Non era affatto scontato che tutte queste persone (e molte altre che non ho riconosciuto) accettassero parole tutte centrate sull’ineluttabilità della speranza, sulla ferita della bellezza. Siamo diventati tutti così moderni, così scettici! Invece il testo del discorso è andato a ruba, e durante il ricevimento se ne è molto parlato, con grande apertura d’interesse. Merito del Papa, certo. E merito anche di monsignor Ravasi, milanese prestato alla capitale, che ha pensato e fortemente voluto questo incontro, sfidando l’ira degli esclusi.
Ma io credo che il successo di questo momento venga da più lontano. La mia impressione è che il mondo della cultura e dell’arte non ne possa più di questa modernità così deludente, dell’arte ridotta a «esercizio provocatorio e autoreferenziale» (Ravasi). Vengono alla mente le parole che Roland Barthes, guru della modernità, scrisse dopo la morte della madre: «D’un tratto, non m’importa più di essere moderno». Basta con questa gara a chi è più cinico, più provocatorio, a chi sa stare meglio sotto i riflettori. Basta con quest’arte ridotta a gioco per ricchi. Basta con questo mondo finto, in cui la massima aspirazione per un artista sembra essere quella di diventare un pubblicitario, un creatore di mode, un intrattenitore, un inventore di sogni.
La storia, però, continua il suo cammino verso il Giudizio universale, oppure verso il nulla senza alcun giudizio. Se si vuole che il senso di questo incontro non vada perduto occorre fare in fretta. Il pallino del gioco ora è nelle mani di chi ha lanciato il sasso, ossia della Chiesa. Si tratta di passare alla controffensiva, sfidare le parole di chi detiene il potere e dare inizio a una nuova battaglia per la cultura e per la libertà. Contrastare, se necessario, il potere con un altro potere. Far crescere, con azioni concrete e mirate, quel germe di speranza che l’incontro ha fatto balenare in tutti.
E scusatemi se non vi parlo del ricevimento, degli abiti delle signore, del buffet, del menu, dei cocktail, delle cravatte. Di solito si fa così, quando non c’è nient’altro di cui parlare.
«Il Giornale» del 22 novembre 2009
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