Dopo Roberto Calasso, sul saggio di Bruno Arpaia interviene Michele Salvati
di Michele Salvati
Sentimentalismi e voglia di nuovo penalizzano la politica d’oggi
Bruno Arpaia ha scritto un bel saggio (Per una sinistra reazionaria, Guanda), appassionato e sincero, di cui consiglio la lettura, a sinistra e a destra. Il suo difetto principale è che mischia grandi e piccoli temi, grandi e piccoli personaggi: la critica all’individualismo liberale e quella... al nascente partito democratico, i riferimenti ad Alexis de Tocqueville e a... Michele Santoro. Non è un gran difetto per un testimone italiano del nostro tempo, per un patito di politica, per un bravo giornalista. Se non in questo: i grandi temi di cui tratta soffrono un poco per la passione con cui li tratta e per la miscela contingente in cui li immerge. Da ultimo, per una mancanza di approfondimento. Le critiche ai due pilastri del nostro sistema sociale - la democrazia rappresentativa e il mercato - e alla rivoluzione individualistica e liberale sui quali sono fondati sono antiche: la reazione anti illuministica è simbiotica all’Illuminismo; De Maistre e Burke - due grandi e diversissimi «reazionari» - sono di poco successivi agli illuministi scozzesi e francesi; la nostalgia per la comunità, le radici e l’ordine, per i legami che davano senso alla vita nelle società dell’antico regime, ha da subito accompagnato il travolgente sviluppo dei mercati, la secolarizzazione, la rottura impietosa delle tradizioni: «tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria», scrivevano Marx ed Engels con grande condivisione per il progresso inarrestabile del capitalismo. È stata la destra, nell’esperienza europea, a far leva su questi sentimenti reazionari. La sinistra, nella sua fase socialista del Novecento, faceva leva sulle sofferenze che lo sviluppo del capitalismo provocava nei ceti operai in nome di un grandioso ideale emancipatorio, di un disegno rivoluzionario, che esplose nell’esperienza drammatica del comunismo: abbracciando in pieno l’idea di progresso, una vita degna d’essere vissuta era rinviata al futuro, alla società socialista, e intanto ci si basava sul senso di comunità che sprigionava la nuova religione terrena degli oppressi. Oggi la destra, per fortuna, ha abbandonato il riferimento alla società tradizionale e quello, ben più pericoloso, a miti comunitari nazionalistici o razzisti. E per fortuna la sinistra ha abbandonato il disegno palingenetico del comunismo. Entrambe hanno accettato i due pilastri del mercato e della democrazia rappresentativa e il terreno individualistico sul quale si appoggiano. Entrambe hanno accentuato i loro caratteri liberali: con dosi variabili di «Dio, Patria e Famiglia» la destra; con dosi variabili di egualitarismo e solidarismo la sinistra. Bene così, a mio modo di vedere. Ma questo lascia insoddisfatto Bruno Arpaia e il suo alter ego di destra - il colloquio è continuo nel libro - Marcello Veneziani. Questa insoddisfazione ha buoni motivi: non di sole libertà ed eguaglianza vive l’uomo - due valori individualistici - ma anche di legami comunitari. La terza parola della grande triade rivoluzionaria - fraternità - è profondamente diversa dalle prime due e a esse non riducibile: gli uomini certo nascono liberi ed eguali, ma nascono in famiglie e comunità che li formano e li deformano. E al di là delle comunità non scelte, ci sono quelle scelte, o confermate da una continua adesione: nazione, religione, partito... fino al circolo degli scacchi. Comunità innocue o comunità pericolose, perché poche danno un senso altrettanto semplice e forte alla vita quanto quelle che si fondano su una opposizione radicale agli «altri». Mercato e democrazia rappresentativa sono meccanismi freddi: c’è bisogno di calore. Arpaia evoca questo bisogno in modo brillante e appassionato. Per chi avverte questo bisogno e voglia riflettere su come possa essere soddisfatto in un mondo sorretto dai benefici ma freddi pilastri di mercato e democrazia, concludo suggerendo un grande piccolo libro - Michael Walzer, Politics and Passion, Yale University Press, 2004 - di cui esiste una traduzione presso Feltrinelli, purtroppo parziale: Ragione e passione. Per una critica del liberalismo.
Se lo scopo di Bruno Arpaia era far discutere, senza dubbio il suo «Per una sinistra reazionaria» (Guanda) ha colto nel segno Bruno Pischedda, da lui citato, lo ha criticato sul «Corriere» del 31 marzo, auspicando «un’epurazione drastica delle scorie romantiche» dal linguaggio di sinistra Invece Luca Ricolfi («La Stampa», 4 aprile) ha definito Arpaia «coraggioso» e «serissimo», notando però che il suo non è l’unico modo «per prendere le distanze da una sinistra che non ci piace» Roberto Calasso, anch’egli citato nel libro, è intervenuto, sul «Corriere» del 7 aprile, per ribadire che il progressismo è ormai al tramonto Più severo verso lo scrittore napoletano si è mostrato Giuseppe Berta: sull’«Espresso» (13 aprile) lo ha accusato di fornire un’immagine «caricaturale» del liberalismo La discussione ha poi indotto Arpaia a ribadire le sue tesi, a favore di un recupero dei valori di comunità e tradizione, in un articolo apparso l’11 aprile sul «Corriere» Infine ieri sul «Foglio» Alfonso Berardinelli ha preso spunto dal libro per spiegare come mai il progressismo «è duro a morire».
«Corriere della sera» del 21 aprile 2007
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