Non basta il consenso sociale
di Francesco D'Agostino
Né di destra, né di sinistra: la legalità è un diritto: così ha autorevolmente risposto il sindaco di Roma, Walter Veltroni (vedi "Repubblica", 8 maggio) a un cittadino, consapevolmente schierato a sinistra, che ha scritto una lettera aperta, sentendosi minacciato nella sua identità di progressista da un crescente (e purtroppo inappagato) desiderio di legalità. Probabilmente questo cittadino, dopo la lettura delle sagge parole di Veltroni, si sarà rasserenato. È giusto che sia così.
Ma perché non mettere alla prova questa riconquistata serenità? Basta porre una domanda semplicissima: la legalità è un diritto fondamentale dei cittadini in sé oppure perché lo dice un politico autorevole? E’ chiaro che se accettiamo questa seconda risposta entriamo in un vicolo cieco. Un politico, per quanto autorevole, non può garantire oggettivamente alcun valore, se non altro perché in democrazia è inevitabile che quell’autorevolezza, che gli viene riconosciuta dai suoi fautori, gli venga negata dai suoi avversari (anche da quelli che militano nel suo stesso schieramento). Insomma, per dirla con una certa brutalità, la legalità è cosa troppo importante, perché la sua difesa sia affidata ai politici. Infatti, ubbidire alle leggi è certamente un valore (quel valore appunto che definiamo legalità), che non dipende però solo dal fatto che esse siano state legittimamente introdotte nell’ordinamento giuridico dal legislatore.
Se dobbiamo tutti ubbidire alle leggi, è perché esse sono giuste; perché sono assolutamente giuste (e questa è la specifica qualità delle leggi che rispecchiano i principi del diritto naturale) o perché sono relativamente giuste, in quanto prodotte, nell’ambito dell’opinabile, da scelte discrezionali (e che quindi avrebbero ben potuto essere diverse) operate da un legislatore legittimato democraticamente. In un caso come nell’altro, non è mai il mero potere a giustificare la legalità, ma il bene umano (assoluto o relativo) che le leggi cercano di promuovere. Lo dimostra il fatto che quando le leggi sono ingiuste, dobbiamo pur (tranne che in situazioni estreme) ubbidir loro, ma solo quando la nostra disubbidienza potrebbe produrre ingiustizie ancora peggiori ed assumendo comunque un fermo impegno perché vengano al più presto cancellate o emendate.
La legalità può entrare in crisi per diversi fattori. Cicli economici sfavorevoli, sradicamento sociale, disoccupazione, disgregazione di valori comunitari sono tutte ragioni che spiegano la crisi della legalità. A queste ragioni aggiungiamone però una, che non è secondaria: il diffondersi del relativismo, con la conseguente rinuncia a motivare le leggi per il loro oggettivo portato di giustizia. Per i relativisti, infatti, le leggi vanno fatte e vanno ubbidite non in quanto giuste, ma in quanto volute, in quanto cioè sorrette da un adeguato consenso sociale. A parte che l’esistenza di un simile consenso spesso è solo ipotetica ed è comunque difficilmente verificabile, resta il fatto che, per quanto numerosi siano coloro che possano democraticamente volere una legge, non si riuscirà mai con questo argomento a farla rispettare da coloro che quella legge non l’abbiano voluta e soprattutto da coloro che, come gli extra-comunitari, non essendo cittadini italiani, non possono per definizione nemmeno volerla, da coloro cioè che non hanno titolo per partecipare al processo sociale di formazione delle leggi. Per costoro - se non si usa l’ argomento di giustizia - può al massimo funzionare, come motivatore dell’ ubbidienza, solo la minaccia delle sanzioni. Ma le minacce legali, anche quelle più credibili (in Italia lo sono raramente), non creano rispetto, ma al più timore e soprattutto rancore. E il rancore è uno dei principali brodi di cultura dell’illegalità.
«Avvenire» del 13 maggio 2007
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