Il figlio del commissario ucciso a Milano nel 1972 ha scritto un libro sulla morte del padre e su oltre trent’anni di calunnie
di Pierluigi Battista
Mario Calabresi: archiviare il terrorismo ma soltanto se rispettiamo le vittime
Voltare pagina, chiudere e amnistiare una stagione di sangue e di follia: facile predicarlo quando gli anni Settanta sono solo un ricordo sbiadito, archiviato dalla storia ed esistenzialmente lontano. Ma se si è figli di Luigi Calabresi, il commissario di polizia assassinato il 17 maggio 1972 dopo un linciaggio politico di smisurata crudeltà, quella predicazione (così ragionevole, così necessaria) contiene in sé qualcosa di atroce, e richiede uno sforzo ascetico per non lasciarsi sommergere dal rancore. Mario Calabresi, che aveva due anni quando spararono al padre, quella pagina la vorrebbe girare anche lui, sebbene l’abbia vista imbrattata di menzogne e ipocrisie lungo tutta la sua giovinezza e fino ai nostri giorni quando, oramai adulto, giornalista di punta di Repubblica, manda in libreria Spingendo la notte più in là (Mondadori) per narrare la straordinaria «storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo». Voltare pagina, certo. Ma intanto, racconta Mario, ancora nel 2006, nella centralissima via romana appena attraversata da una manifestazione della «sinistra radicale», viene tracciata la solita, stucchevole scritta: «Calabresi assassino». Racconta anche di aver visto a Viterbo, sotto la targa che indica una Via Calabresi, l’aggiunta a pennarello: «Assassino». E a Genova, nel luglio del 2004, su un giornale murale dei centri sociali, Mario riferisce di aver letto sbigottito sotto il titolo «Basta menzogne! Luigi Calabresi era un torturatore» il seguente delicato proclama: «La sua uccisione è stato un atto di giustizia, checché ne dicano i parenti piagnoni: si sa che anche i boia hanno una famiglia». Tutto questo trentadue anni dopo. Ma nell’84, a dodici anni dall’omicidio del padre, l’educazione sentimentale del figlio del commissario assassinato aveva conosciuto una nuova tappa di dolore allorché, durante una manifestazione per ricordare la strage di Piazza Fontana, «un gruppetto cominciò a scandire lo slogan "Ca-la-bre-si a-ssa-ssi-no"». Mario ne uscì sconvolto: «Non so cosa fare, dove andare». Ancora poco rispetto a quella festa del 1992 in cui colse al volo le frasi di un’invitata: «Che schifo, la vedova, l’hanno riempita di soldi e fa anche la vittima Avrebbero dovuto ammazzare anche lei». Inutile sottolineare che «lei» era la mamma di Mario, Gemma Calabresi, la quale mai e poi mai era stata «riempita di soldi» e per anni ha fatto la maestra elementare per mantenere i suoi figli. «Guadagno la porta, esco nell’inverno milanese, umido, cerco aria, la testa mi scoppia», scrive Mario. È difficile voltare pagina se, dopo decenni, l’ignoranza, il fanatismo, la spietatezza del luogo comune non sembrano neanche scalfiti. Eppure, malgrado tutto, Mario Calabresi quell’orrenda pagina della storia italiana vorrebbe chiuderla: per «spingere la notte più in là», come suggerisce il titolo del libro ispirato a una poesia di Tonino Milite, «l’uomo che ha fatto da padre a Paolo, Luigi e Mario Calabresi». È difficile voltare pagina se si è figli delle vittime del terrorismo e della violenza politica. Lo confermano la figlia di Walter Tobagi, la vedova di Ezio Tarantelli, la figlia di Luigi Marangoni, il figlio di Emilio Alessandrini interpellati nel libro. Che non reclamano vendetta, ma il riconoscimento di una memoria integra, pretendono che la storia delle vittime non resti silente e marginale, e non vogliono, non sopportano più, che la scena del ricordo sia monopolizzata dai carnefici, ancorché pentiti delle loro gesta assassine. La figlia di Antonio Custra, il poliziotto trucidato nella manifestazione milanese in cui un giovane incappucciato venne immortalato mentre puntava sui celerini la sua pistola, pretenderebbe addirittura che suo padre fosse ricordato con il suo vero nome e cognome, che non è Antonino Custrà, come tramandano le cronache, ma appunto Antonio Custra: vittime, e anche costrette a subire l’umiliazione del nome storpiato dalla sciatteria dei giornali. È ancora più difficile voltare pagina se l’ombra del linciaggio non si estingue nel tempo, si perpetua, ristagna in una memoria pubblica mutilata e incapace di risarcire il prezzo di ciò che Mario Calabresi definisce il «naufragio» delle famiglie di chi è stato ucciso dai terroristi. Calabresi ha convissuto per anni con l’ombra di quell’ingiustizia. Gerardo D’Ambrosio, il giudice che dimostrò l’innocenza di Calabresi per la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, racconta a Mario che lo aveva raggiunto dopo un’intervista rilasciata a Dino Martirano per il Corriere della Sera che a lui, uomo di sinistra, arrivano ancora lettere in cui è scritto: «Lei è andato a fare il senatore ma ci deve dire come mai ha assolto gli assassini di Pinelli». Ancora oggi la stessa domanda. Ancora l’ombra delle torbide fantasie che alimentarono la campagna contro «il boia Calabresi»: il colpo di karate, il siero della verità, l’ambulanza ostacolata, le frequentazioni del commissario con la Cia. Tutto falso, tutto crollato. Ma resta il pregiudizio, l’oltraggio postumo sulla tomba della vittima. E così Mario Calabresi ha dovuto sopportare con la sua famiglia la ferocia di una memoria stravolta. A un certo punto, ancora giovanissimo, si è chiuso in emeroteca per leggere avidamente i giornali dell’epoca in cui il linciaggio aveva raggiunto il culmine. Ha scoperto che l’accanimento fanatico non aveva risparmiato neanche un neonato: «Non molto tempo dopo la mia nascita il quotidiano Lotta continua ritraeva mio padre con me in braccio intento a insegnarmi a decapitare, con una piccola ghigliottina giocattolo, un bambolotto che rappresentava un anarchico». Eppure auspica che «voltare pagina si possa e si debba fare». A una condizione però: «Ricordare che ogni pagina ha due facciate e non ci si può preoccupare di leggerne una sola, quella dei terroristi e degli stragisti, bisogna preoccuparsi innanzitutto dell’altra: farsi carico delle vittime». E invece lo Stato, ma anche la cultura diffusa, il tono del discorso pubblico, non si sobbarcano la fatica di questo doveroso e ineludibile «farsi carico». Anzi, non si fa che chiedere ai familiari delle vittime di non murarsi nel rancore, di apparire illuminati, aperti, generosi. Ricorda Mario Calabresi il Pietro Folena che «mi propose garbatamente qualcosa che somigliava troppo a uno scambio: è tempo di dare il via libera alla clemenza, come è tempo di rivalutare la figura di tuo padre, ognuno di noi può fare la sua parte». Mario rifiutò. Si può mediare su tutto, ma le scuse per le calunnie che hanno infangato suo padre, la vittima, non sono oggetto di scambio. Questo principio elementare l’Italia non l’ha ancora imparato.
«Corriere della sera» del 5 maggio 2007
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