04 luglio 2007

Irresponsabilità e droga al volante

Il dramma del bus degli scolari
di Lucia Bellaspiga
Quando una droga è "leggera"? Quando l'uso è "personale"? Quando la quantità è "modica"? Domande in genere teoriche, cavillose, roba da dibattito politico, da rissa televisiva, senza mai risposte.
Ma questa volta, nel dramma del bus carico di scolari che l'altro giorno si è ribaltato sull'autostrada uccidendo due dei suoi piccoli passeggeri, le risposte sono nei fatti. Michael Vigna, 6 anni, mercoledì è rimasto sull'asfalto, accanto a quel pullman che lo stava riportando a casa dopo una gita scolastica, coperto da un metro di stoffa bianca, mentre ieri mattina moriva Francesco Barbonaglia, 8 anni, e i genitori donavano i suoi organi.
Sempre ieri, tuttavia, nel sangue dell'autista, Michele Tizzani, 32 anni, la polizia rivelava tracce di cannabis. Era stato lui stesso a parlare di un «colpo di sonno», inspiegabile per l'ora dell'incidente: erano le 18, non notte fonda, e - pare - a confidare alla Polstrada di aver fumato la sera prima del viaggio uno spinello. E noi qui, adesso, a costo di apparire crudeli, a porci la domanda che tutti coloro che hanno una coscienza si saranno in cuor loro già posti: può un autista fumarsi una canna quando sa che alcune ore dopo terrà stretta nelle mani la vita di 41 bambini? Che società è mai questa se il mondo degli adulti, che si suppone a tutela dei bambini, sembra ogni giorno ignorare questo compito senza remore né ripensamenti?
L'uomo, che è agli arresti, è accusato di omicidio colposo con l'aggravante di aver assunto stupefacenti, mentre la procura dovrà accertare dinamiche e responsabilità. Ma di fronte a quel pullman impazzito senza un perché, sdraiato a ruote in su col suo carico di morte, come possiamo del tutto tacere? Sarà stato certamente "leggero" quello spinello (è la terminologia adottata), e senza dubbio "personale" (l'uomo non stava spacciando), e di sicuro "modico" (per legge, fino a una ventina se ne possono detenere), eppure ha forse contribuito a stroncare due giovani esistenze. E magari i soliti garantisti si affanneranno a dire che è da avvoltoi strumentalizzare un episodio per trarre conclusioni avverse all'uso della droga, quando i medici spiegano che basta uno spinello per annullare i riflessi e che «dalle analisi la sostanza era stata assunta da poco».
Il punto tuttavia resta un altro: anche nel dubbio, può un uomo non più giovanissimo, tanto da conseguire la patente per i pullman, dunque con una professione di grande responsabilità, può costui assumere droga e poi mettersi alla guida del suo carico di vite? Chi spiega ora a quei genitori che Michael e Francesco hanno finito, chiuso con la vita, forse proprio per quel "leggero" "personale" e "modico" vizietto della sera prima, magari assunto nell'illusione che una canna aiuti a reggere i ritmi dello stress, quasi fosse un caffé un po' più forte?
«Credevo fosse una tragedia, ma se è andata così questo è un delitto», riassume per tutti noi il sindaco del paese, Stroppiana (1.249 abitanti fino a ieri), che ha rischiato di perdere in un colpo tutta la sua infanzia. Mentre le associazioni di consumatori chiedono a gran voce l'ovvietà: «Chi per lavoro conduce mezzi pesanti sia sottoposto a periodici controlli fisici e psichici». Se due bicchieri di vino bastano per un ritiro di patente, non è un'esagerazione chiedere che chi si droga non possa guidare, tanto meno guidare un pullman, perché il diritto di annebbiarsi non può contare più del dovere alla responsabilità. È in questo senso del "dovere", parola scomoda, la chiave per uscirne, perché oggi troppo spesso ci si dimentica di averne uno, intestato a sé: lo ha dimenticato quel padre di Bari che da anni vendeva la sua bambina per qualche birra, lo ha dimenticato chi a Castellaneta, nell'ospedale, ha confuso i tubi dell'ossigeno con quelli dell'azoto, lo ha dimenticato chi a San Giuliano, in Molise, costruì una scuola illegale (27 bambini morti, e un paese intero, quella volta, perse davvero in un colpo tutta la sua infanzia).
Guarda caso, chi ne fa le spese sono spesso, i più piccoli, gli indifesi.
«Avvenire» dell’11 maggio 2007

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