di Pietro Ichino
Perché in Italia fare questo mestiere è così pericoloso? Carlo Castellano, dirigente industriale colpevole di accordi innovativi sull’organizzazione del lavoro, ferito gravemente, poi perseguitato ancora per anni dagli stessi aggressori (1977); Filippo Peschiera, giuslavorista, democristiano di sinistra, ferito gravemente (1978); Guido Rossa, sindacalista Cgil all’Italsider, ucciso (1979); Gino Giugni, giuslavorista, grande architetto delle riforme in materia di lavoro fin dagli anni 60, ferito gravemente (1983). E ancora: Ezio Tarantelli, economista del lavoro, ideatore della riforma della scala mobile che ci ha consentito di vincere la scommessa di Maastricht, ucciso (1985); Massimo D’Antona, giuslavorista, consigliere dei ministri del Lavoro e dei Trasporti, ucciso (1999); Marco Biagi, giuslavorista, autore della riforma che porta il suo nome, ucciso (2002); e sono solo i nomi più noti tra i tanti che negli ultimi trent’anni hanno pagato col sangue il loro impegno sul fronte del lavoro. La vicenda di quest’ultima riforma del lavoro può aiutarci a capire almeno un aspetto di questo meccanismo infernale. Marco Biagi ha scritto di suo pugno il progetto di una legge sul mercato del lavoro, che era per molti aspetti la naturale prosecuzione del cammino di riforma avviato con le leggi Treu del 1997. Ma che cosa disponesse davvero quella legge non interessava molto, né a destra né a sinistra. Al governo di centrodestra interessava soltanto presentarla come «la grande liberalizzazione», quella che avrebbe fatto del nostro mercato del lavoro «il più fluido d’Europa»; all’opposizione di sinistra non è parso vero di prendere il «nemico» in parola, presentandola come la legge della «liberalizzazione selvaggia», che avrebbe «spalancato le porte al precariato». Da una parte e dall’altra se ne è fatto un simbolo: bandiera da sventolare per gli uni, da abbattere per gli altri; indifferenti tutti a che cosa prevedesse davvero. Solo qualche anno dopo - ed è cronaca delle ultime settimane - ci si è accorti, dati alla mano, che quella legge non aveva prodotto alcun aumento del precariato e anzi forniva, con le norme sul «lavoro a progetto», alcuni buoni strumenti per combattere l’abuso del lavoro precario: strumenti di cui il governo Prodi si è immediatamente avvalso con la circolare sui call center; e che a molti imprenditori sembrano semmai fin troppo severi. Peccato che, nel frattempo, le Brigate rosse avessero pensato bene di fare dell’autore stesso di quella legge un simbolo da abbattere. La scoperta dell’errore commesso sul «lavoro a progetto» non basta perché cessino le opposte faziosità. Invece di ragionare pragmaticamente sulle molte parti della legge che richiedono qualche correzione o qualche integrazione, si continua con il muro contro muro. Se si rinuncia (a denti stretti) ad abrogare le norme sul «lavoro a progetto», occorre «almeno» sopprimere in blocco le norme sul «lavoro a chiamata» e quelle sullo staff leasing. Nessuno si cura del fatto che il «lavoro a chiamata» sia un tipo marginalissimo di contratto che è sempre esistito (i camerieri ingaggiati per un banchetto, le hostess per un congresso, ecc.) e che continuerà a esistere anche se si abrogheranno le poche norme con cui la legge Biagi si propone di regolarlo. Quanto allo staff leasing - pacificamente sperimentato in molti Paesi, tra cui la vicinissima Svizzera, con piena soddisfazione dei sindacati - nessuno si cura del fatto che si tratti di una forma di organizzazione del lavoro fortemente stabile, al quale si applica senza eccezione la protezione massima dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; a nessuno interessa che l’alternativa allo staff leasing, da noi, sia il lavoro in una miriade di aziendine appaltatrici di servizi, con poche o nulle protezioni efficaci. La legge Biagi è un simbolo da abbattere: se non la si può cancellare del tutto, occorre a tutti i costi cancellarne almeno una parte. Pazienza se questa cancellazione è del tutto irrilevante, o addirittura controproducente, rispetto all’obbiettivo sbandierato di combattere il precariato. Perché dico che questa vicenda può spiegare almeno un aspetto della pericolosità del mestiere del giuslavorista o dell’economista del lavoro? Perché il lavoro è materia che scotta; e lo studioso che fa bene il suo mestiere, in questo campo, è costretto troppo sovente a dire cose che urtano contro dei tabù, contro un modo fazioso e non pragmatico di affrontare le questioni, tipico del dibattito italiano su questi temi. Chi non si rassegna a omologarsi con il «pensiero corazzato» dell’un campo politico o dell’altro rischia di trovarsi isolato e schiacciato tra le opposte faziosità. Viene temuto come il demonio dalle vestali di quel «pensiero corazzato», perché il suo discorso problematico squalifica i loro slogan facili, le loro scorciatoie concettuali; quindi finiscono col demonizzarlo, nel tentativo di chiudere il dibattito prima ancora che esso si apra. Solo a parole, si intende. Ma nel nostro Paese c’è ancora qualcuno che la «chiusura preventiva del dibattito» la intende in un altro modo.
«Corriere della sera» del 13 febbraio 2007
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