di Renzo Foa
Ogni volta che un'inchiesta sul terrorismo coinvolge un associato al maggiore sindacato italiano, che è la Cgil, mi vengono in mente i nomi di Guido Rossa e di Luciano Lama. Rossa che si oppose apertamente alle Br e venne ucciso, Lama - se ne è parlato tanto in questi giorni di polemiche sul '77 - che a sua volta si espose in prima persona, non solo all'Università di Roma, ma nelle assemblee operaie ed in pubblico. Entrambi fissarono un confine netto tra democrazia ed eversione, sapendo che il mondo del lavoro non può prescindere dalla fatica della legalità e che il conflitto sociale non può essere trascinato in un'«area grigia», non può avere contiguità.
Da quella ormai lontana stagione, non sono mancati però casi di infiltrazione, se vogliamo definirli così. Casi in cui degli individui, poi accusati e condannati per terrorismo, hanno convissuto con il sindacato, hanno partecipato alla sua organizzazione, alle sue discussioni e alle sue iniziative. Gli stessi bersagli che sono stati scelti - penso in primo luogo a Sergio D'Antona e a Marco Biagi - erano i protagonisti di una ricerca che aveva al suo centro la modernizzazione del mondo del lavoro bloccato dal conservatorismo. Il loro assassinio ebbe effetti diretti proprio su quell'area.
Come dimenticare le polemiche esplose all'indomani dei due agguati mortali? Vi furono coinvolte due personalità che certo non possono essere sospettate di nutrire accondiscendenza verso l'eversione. Dapprima Fausto Bertinotti si lasciò sfuggire che poteva anche condividere parte dei contenuti di un comunicato brigatista e faticò a uscire dal cul de sac in cui si era cacciato. Poi fu la volta di Sergio Cofferati, che adesso come sindaco di Bologna si trova invece ad affrontare coloro che non vogliono nemmeno ricordare il giuslavorista in una sede istituzionale.
Sono stati passaggi drammatici della nostra recente storia. Ma quel che preoccupa di più è il fatto che - in forme e con protagonisti diversi - proprio questa storia non si interrompe. C'è da tornare a chiedersi cosa non funzioni e perché ancora una volta viene scoperta una rete terroristica in cui sono coinvolti anche aderenti alla Cgil, una rete giudicata molto pericolosa da un ministro dell'Interno come Giuliano Amato che è uno dei leader del centrosinistra e che, oltretutto, ha anche un pezzo del suo passato proprio all'interno della Cgil.
Una volta andava per la maggiore una parola come «vigilanza», a cui poi venivano anche aggiunti sinistri aggettivi. Fortunatamente, gli inquirenti hanno vigilato e al meglio. Ma qualche risposta deve venire anche dal sindacato, da chi deve per primo preoccuparsi di non essere contaminato e di non essere vissuto come alibi culturale e politico da chi rifiuta la coesistenza civile e sceglie l'antidemocrazia. Il terrorismo non è un reato qualsiasi, è l'approdo dell'intolleranza e della volontà di distruzione. Sono necessari parole e atti chiari da parte della Cgil. Se per anni una cultura ci ha sommersi con le sue teorie del «doppio Stato» e dell'illegittimità degli avversari politici, voglio rifiutarmi di pensare ad un «doppio sindacato».
Da quella ormai lontana stagione, non sono mancati però casi di infiltrazione, se vogliamo definirli così. Casi in cui degli individui, poi accusati e condannati per terrorismo, hanno convissuto con il sindacato, hanno partecipato alla sua organizzazione, alle sue discussioni e alle sue iniziative. Gli stessi bersagli che sono stati scelti - penso in primo luogo a Sergio D'Antona e a Marco Biagi - erano i protagonisti di una ricerca che aveva al suo centro la modernizzazione del mondo del lavoro bloccato dal conservatorismo. Il loro assassinio ebbe effetti diretti proprio su quell'area.
Come dimenticare le polemiche esplose all'indomani dei due agguati mortali? Vi furono coinvolte due personalità che certo non possono essere sospettate di nutrire accondiscendenza verso l'eversione. Dapprima Fausto Bertinotti si lasciò sfuggire che poteva anche condividere parte dei contenuti di un comunicato brigatista e faticò a uscire dal cul de sac in cui si era cacciato. Poi fu la volta di Sergio Cofferati, che adesso come sindaco di Bologna si trova invece ad affrontare coloro che non vogliono nemmeno ricordare il giuslavorista in una sede istituzionale.
Sono stati passaggi drammatici della nostra recente storia. Ma quel che preoccupa di più è il fatto che - in forme e con protagonisti diversi - proprio questa storia non si interrompe. C'è da tornare a chiedersi cosa non funzioni e perché ancora una volta viene scoperta una rete terroristica in cui sono coinvolti anche aderenti alla Cgil, una rete giudicata molto pericolosa da un ministro dell'Interno come Giuliano Amato che è uno dei leader del centrosinistra e che, oltretutto, ha anche un pezzo del suo passato proprio all'interno della Cgil.
Una volta andava per la maggiore una parola come «vigilanza», a cui poi venivano anche aggiunti sinistri aggettivi. Fortunatamente, gli inquirenti hanno vigilato e al meglio. Ma qualche risposta deve venire anche dal sindacato, da chi deve per primo preoccuparsi di non essere contaminato e di non essere vissuto come alibi culturale e politico da chi rifiuta la coesistenza civile e sceglie l'antidemocrazia. Il terrorismo non è un reato qualsiasi, è l'approdo dell'intolleranza e della volontà di distruzione. Sono necessari parole e atti chiari da parte della Cgil. Se per anni una cultura ci ha sommersi con le sue teorie del «doppio Stato» e dell'illegittimità degli avversari politici, voglio rifiutarmi di pensare ad un «doppio sindacato».
«Il Giornale» del 13 febbraio 2007
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