Per la prima volta si vende qualcosa di umano
di Eugenia Roccella
La battaglia sulla fecondazione assistita è stata condotta tutta in nome dei diritti delle donne. Chi era critico nei confronti della disinvoltura con cui si maneggiavano sia gli embrioni che i corpi femminili era classificato tra i nemici di quei diritti. Sull’esistenza, in tanti Paesi del mondo, di gruppi femministi ferocemente contrari alla "tecnomaternità" si preferiva sorvolare, mentre si sottolineava l’inconciliabilità di interessi tra embrione e donna. Secondo questo criterio, i due soggetti si trovano sui lati opposti della barricata, e chi difende l’uno può farlo solo a scapito dell’altra. A quasi due anni dal referendum, nonostante il poderoso sforzo mediatico con cui si continua a mascherare la verità, le cose sono più chiare. Oggi la Authority inglese per l’embriologia e la fecondazione umana, la Hfea, deciderà sulla possibilità di immettere legalmente sul mercato gli ovuli femminili. Sarà la prima volta che una parte del corpo umano potrà essere venduta nell’Occidente che si vanta di allargare sempre di più la sfera dei diritti dell’uomo. Bisogna aggiungere che i trattamenti ormonali necessari a produrre ovuli sono pesanti, che si rischia la sindrome da iperstimolazione ovarica, e che in Inghilterra sono già tre le donne morte per questo. L’ipocrisia regna sovrana: alle donne povere che per 250 sterline accetteranno il contratto sarà chiesto di dichiarare che non lo fanno per i soldi, ma per gratuito spirito di sacrificio e amore dell’umanità, cioè per salvare i malati di diabete, Alzheimer o Parkinson. Eppure i membri della Hfea sanno benissimo che la clonazione terapeutica umana resta un’araba fenice, un’ipotesi mai realizzata, e che la prospettiva di arrivare a concrete speranze di cura per quei malati è assolutamente remota. L’impressionante schieramento di medici e scienziati a favore della procreazione assistita si può leggere oggi per quello che in gran parte è stato: la pressione di potenti lobby della ricerca scientifica per ottenere ovuli ed embrioni per i propri laboratori. Intanto, la situazione degli embrioni non è migliorata. Nonostante si siano scoperte nuove fonti di cellule staminali pluripotenti (come il liquido amniotico e la placenta), la caccia all’embrione è sempre aperta. In America esiste una banca degli embrioni a cui ci si può rivolgere per ottenere l’embrione garantito, in grado di trasformarsi nel figlio perfetto, possibilmente alto, biondo e con gli occhi azzurri. Niente roba di seconda scelta. Grazie al ministro Mussi, gli embrioni, sempre nel modo più ipocrita possibile, si possono distruggere per essere poi comprati dai centri finanziati con i fondi europei. Non importa se la ricerca che adopera le cellule staminali embrionali non ha mai prodotto un solo protocollo terapeutico, non importa se gli unici risultati per la cura delle malattie sono stati ottenuti con le staminali adulte; le cellule embrionali servono all’industria dei cosmetici, per sostituire le costose cavie. La storia della maternità dovrebbe bastare a smentire l’impostazione ideologica che vuole embrione e donna l’uno contro l’altra; per secoli le donne sono state sentinelle dell’invisibile, proteggendo la vita segreta del figlio che portavano in grembo. Ma se non bastasse, gli esiti a cui stiamo andando incontro mostrano con chiarezza che il progetto di distruzione della maternità naturale, che sposta la nascita dal corpo femminile ai laboratori, tende a distruggere entrambi: l’embrione diventa oggetto di consumo, da comprare e vendere, e il corpo femminile viene smontato come un puzzle, per estrarne i pezzi che davvero interessano, e mettere anche questi sul mercato.
«Avvenire» del 21 febbraio 2007
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