06 febbraio 2007

Società dello spettacolo: la molla del bullismo

Emergenza educativa
di Adriano Fabris
Non c'è più alcun dubbio. Viviamo ormai in una società dello spettacolo. Non solo perché sono fin troppi gli spettacoli che i mass media ci propongono quotidianamente. E non solo perché le cose che si presentano davanti ai nostri occhi, gli avvenimenti di cui facciamo ogni giorno esperienza, li viviamo per lo più come un'esibizione di cui siamo spettatori. Ma soprattutto perché noi stessi siamo indotti a percepirci come parte di uno spettacolo. E di questo spettacolo, sovente, non ci accontentiamo di essere comprimari, ma vogliamo essere i protagonisti.
La vita intera rischia dunque di essere pensata come uno spettacolo: come qualcosa che può essere programmato, filmato, riprodotto, diffuso. Così soprattutto la intendono molti ragazzi, abituati a seguire i vari reality show. E se le azioni più banali, quotidiane, compiute da ragazzi come loro, vengono seguite da milioni di spettatori, se basta mettere in video o in rete le performances di uno sconosciuto per trasformarlo in personaggio, perché allora non possono usare anch'essi le nuove tecnologie per ottenere il medesimo risultato? Tanto più che oggi questi strumenti sono davvero alla portata di tutti.
Ecco dunque la molla che spinge a riprendere con i telefonini le proprie gesta. Ecco il motivo per cui bisogna diffondere in rete, affinché tutti ne possano essere spettatori, comportamenti che risultano censurabili su di un piano morale e spesso, anche, di rilevanza penale.
E non stupisce il fatto che i responsabili di queste azioni non si nascondano. Ciò avviene non tanto per incoscienza o per presunzione d'impunità, quanto, appunto, perché ciò che conta è dare spettacolo. Non c'è più senso del pudore. Nell'esibizione, infatti, tutto viene assolto: perché, come ha recentemente affermato in una trasmissione televisiva la soubrette di turno, vittima del solito indecente scandalo estivo, "tanto il pubblico mi ama".
Non bisogna dunque dare anzitutto la colpa ai telefonini o a internet, o invocare sequestri e censure. In questo caso essi sono davvero strumenti, che possono essere usati bene oppure male. È necessario invece riflettere su questa mentalità che sempre più, oggi, si sta imponendo: quella che fa coincidere il valore della nostra vita con l'esibizione della vita stessa, e che ritiene tanto più grande questo valore quanto più vasta è l'audience che assiste allo spettacolo. Soprattutto, però, c'è da capire fino in fondo il motivo per cui ciò che fa audience non sono gli esempi positivi, quei modelli di vita, cioè, che fanno migliorare la convivenza fra gli uomini, ma sono invece la violenza, la sopraffazione: quelle azioni che ledono la dignità di ogni uomo e di ogni donna.
Certo: si può invocare a tale proposito una serie di carenze sul piano educativo, nonostante il quotidiano impegno profuso da moltissimi insegnanti. Si può scaricare la responsabilità di questi avvenimenti su ciò che non dipende da noi: come la programmazione dei palinsesti televisivi o, più in generale, il predominio di quella società tecnologica che viene a incidere sui nostri atteggiamenti. Ma una cosa va comunque tenuta sempre presente, e va rimarcata anche ai nostri ragazzi, che in realtà ben lo sanno: agire in questo modo non è inevitabile. Nonostante ciò che pensano gli apocalittici di turno, che tuonano sui giornali o in tv sulla necessità di certi esiti. Perché, fortunatamente, noi siamo anche liberi di non dare spettacolo di noi stessi. A differenza di loro, forse.
«Avvenire del 2 febbraio 2007

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