Si scriveva «miserabile fallimento» e si leggeva Bush. Si digitava «più cattivo del diavolo» e usciva «Microsoft»:è il Googlebombing, l’arte di orientare i risultati delle ricerche per attaccare obiettivi sensibili. Un fenomeno che ha costretto gli esperti a correre ai ripari
di Matteo Liut
Dopo anni di insidie e attentati, si è appreso pochi giorni fa che le bombe sono state disinnescate. Politici di mezzo mondo e amministratori di molte grandi aziende potranno finalmente coricarsi senza l'incubo di vedersi vittime di nuovi attacchi. A scongiurare la minaccia, però, non è stata una task force di artificieri professionisti ma gli ingegneri informatici di Google, il più noto e il più usato motore di ricerca della grande rete, Internet. Finisce così - almeno secondo i tecnici americani - l'era del cosiddetto «Googlebombing», il fenomeno per cui i risultati forniti dal grande «indice» telematico potevano essere manipolati, legando spesso parole «poco gentili» a governanti, aziende, prodotti e marchi. Come? Attraverso la merce di scambio più preziosa che esista nel mondo di Internet: i link, i collegamenti che rimandano da un sito all'altro. Circa sei anni fa, infatti, quasi per caso qualcuno scoprì che alcune ricerche su Google risultavano falsate: ad esempio, inserendo l'espressione «più cattivo del diavolo», in inglese, la prima voce restituita dal motore di ricerca era quella del sito della Microsoft, l'azienda di Bill Gates da sempre vittima di innumerevoli critiche nel mondo dell'informatica. Presto si comprese come questa anomalia fosse dovuta allo stesso funzionamento di Google che nei suoi risultati propone ai primi posti i siti verso i quali «guarda», attraverso un collegamento diretto, il maggior numero di altri siti. Facciamo un esempio: se migliaia di persone nelle loro pagine Internet inseriscono le parole «paradiso terrestre» collegandole a un sito in cui si parla delle isole Hawaii, questo stesso sito diventerà la prima voce del risultato fornito da Google inserendo proprio le parole «paradiso terrestre». Il caso in esempio potrebbe scontentare al massimo qualche esegeta, ma il guaio è che il più delle volte le bombe riguardano politici o aziende note, che si vedono legati a espressioni poco lusinghiere. La più famosa? «Miserabile fallimen to», che, se cercata in inglese, portava dritta dritta al sito della Casa Bianca e alla biografia di George W. Bush, mentre, se cercata in italiano, dava come primo risultato la pagina della biografia di Silvio Berlusconi sul sito del Governo italiano.
La sfilza di politici vittime del bombardamento è lunga e il meccanismo è diventato "istituzionale" alle ultime elezione di mid-term negli Stati Uniti, dove i due grandi partiti americani hanno usato questa tecnica per screditare i rispettivi avversari creando migliaia di collegamenti tra i nomi degli opposti candidati e siti che ne parlavano male. In altri casi qualcuno è intervenuto per bloccare la diffusione di ideologie razziste, come è successo per la parola «giudeo» che portava a siti antisemiti fino a quando lo scrittore Daniel Sieradski lanciò l'appello a creare migliaia di collegamenti tra «giudeo» e la relativa pagina di Wikipedia. Nei giorni scorsi Google ha annunciato di aver modificato il programma che fornisce i risultati e quindi, in teoria, non saranno più possibili le bombe create artificialmente. Le più note, infatti, sono scomparse, altre, invece, sembrano sopravvivere.
Il caso del Googlebombing, però, non è una semplice curiosità, si tratta infatti di un meccanismo che porta in primo piano il funzionamento di Internet, l'importanza che la rete ha assunto e la "maturità" di chi la usa.
«In realtà il bombing è una pratica diversa che si fonda su un atto di aggressione diretta ai siti - spiega Simone Tosoni, docente di sociologia dei nuovi media all'Università cattolica di Milano -. Qui la questione è diversa: è una pratica che si pone l'obiettivo di modificare il contenuto di Internet. Una pratica che si richiama all'hacktivismo [il pensiero hacker, ndr], ma il messaggio che ne emerge è diverso. Molto più maturo e dalla portata politica molto più vasta. Essa parte dalla consapevolezza che un motore di ricerca è tutt'altro che un archivio di dati neutro; è invece lo strumento di una forma di pot ere: quella di organizzare, sistemare, gerarchizzare i contenuti. Che è un potere grandissimo». Quindi il popolo della rete è maturato? «Il popolo della rete non esiste - sottolinea Tosoni -, alcuni gruppi di confronto politico che hanno scelto la rete come strumento e terreno di scontro, hanno raggiunto la maturità politica ormai da tempo».
Sembrerebbe quindi che qualcuno abbia capito come modificare i contenuti di Internet, ma «in realtà questo non è possibile - afferma l'esperto dei nuovi media - non in maniera incisiva e non in maniera permanente. Ma non è questo quello che conta. Quello che conta è creare l'argomento, attirare l'attenzione su un terreno di scontro». Secondo Tosoni, insomma, quella legata al Googlebombing è una forma di attivismo politico, intendendo per politico «il tentativo di operare sulla strutturazione e organizzazione dei contenuti». Al di là delle reali «vittime» di questa pratica, quindi, lo scopo diretto è quello di «segnalare che c'è qualcosa da cambiare».
«Bene o male purché se ne parli», diceva un personaggio controverso ma storico. Vero se pensiamo che alcuni siti, dopo essere fuggiti dai bombardamenti cambiando indirizzo, hanno subito fatto marcia indietro. Si erano accorti, forse, di rischiare di distruggere quella notorietà così ben costruita grazie alle «bombe».
«Avvenire» dell’11 febbraio 2007
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