di Pierluigi Battista
Chi detesta l’America, la sua arroganza imperiale, il suo culto della potenza, il suo disprezzo per i deboli e i perdenti, dovrà pur spiegare perché l’odiata America, e solo l’odiata America, sia invece così incline a comprendere e far proprie le ragioni dei «vinti», a meditare sul cuore umano della sconfitta, a raccogliere con gesto pietoso le bandiere imbrattate di fango e stracciate dai vincitori. E perché, al contrario, con molta difficoltà gli europei, così culturalmente blasonati, così inebriati dalla sensazione di essere gli unici titolari della finezza e della nobiltà di spirito, potrebbero concepire e realizzare un film nobile e generoso come «Lettere da Iwo Jima» di Clint Eastwood. Appare infatti come un gesto spontaneamente «americano» la scelta di raffigurare i vinti giapponesi di una battaglia che gli Stati Uniti ricordano con orgoglio, diventata, grazie a quella immagine della bandiera sorretta dai «nostri» a Iwo Jima di cui è dubbia l’autenticità fattuale ma non quella morale, un monumento iconografico nella memoria nazionale. I giapponesi impauriti e smunti, ma che combattono con onore, non cancellano la loro umanità, escono dalla dimensione mostrificata costruita attorno ai lineamenti di un nemico astratto, disincarnato, svilito a pura negatività. Eastwood, dopo il suo «Flags of our Fathers», ha reso esplicita questa scelta di guardare l’altra faccia della guerra santificata dalle ragioni dei vincitori. Non una «riabilitazione» dei vinti, ma un omaggio che in Europa oggi suonerebbe inconcepibile, sospetto, inopportuno. Non è per esempio pensabile che in Francia un film, non un libro per pochi lettori, ma un film destinato a colpire e plasmare l’immaginazione collettiva, possa onorare l’umanità della Vandea: ancora oggi, a secoli di distanza, una scelta del genere verrebbe considerata un oltraggio ai principi immortali della Rivoluzione. Ma in Spagna, in Germania, in Italia, in Gran Bretagna, è immaginabile che i vincitori, forti e convinti di se stessi, orgogliosi di ciò che sono, sappiano tuttavia chinarsi nella contemplazione rispettosa dei vinti? In America sì, questo miracolo ha sempre funzionato. Uno dei film più famosi e celebrati di tutti i tempi, «Via col vento», ruota sulla rappresentazione del mondo dei vinti, dell’universo simbolico, culturale ed affettivo del Sud sconfitto, non certo rivalutato nella sua dimensione schiavista e tuttavia rispettato come un pezzo della storia americana che non può essere cancellato e annichilito dalla «damnatio memoriae». Una guerra civile devastante, vinta dalla parte «giusta», non ha però portato alla diffamazione demonizzante ed eterna della parte «sbagliata», sconfitta dalla storia, ma pur sempre ricompresa e rielaborata con il rispetto che si deve alla memoria di chi ha perduto. Da noi invece il gesto di Clint Eastwood, che non «riabilita» i giapponesi di Iwo Jima, ma non può più caricaturizzarli come stereotipi del nemico, verrebbe guardato con diffidenza e malumore. Da noi persino una fiction storica che semplicemente conferisce ai «vinti» un fondo di umanità viene sottoposta al fuoco di una critica abituata a misurare con pignoleria il grado di correttezza politica e storiografica ogni trasposizione di una vicenda storica nel campo della fiction. Come se la guerra non fosse finita. Come se non fosse compito di chi la guerra l’ha vinta di non rinchiudersi per sempre nella protervia del vincitore sordo alle memorie irriducibili di chi la guerra perduta non può nemmeno scriverla. Un’altra lezione, dall’America arrogante e imperiale. Molto più umile e umana, però, di chi in Europa, non sa rinunciare alla pretesa della propria superiorità.
«Corriere della sera» del 26 febbraio 2007
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