Le polemiche seguite a «Pasque di sangue» sugli omicidi rituali che sarebbero stati commessi alla fine del Medioevo
di Sergio Luzzatto
Caso Toaff: il rischio di un pensiero unico se il dibattito è fuori dallo spazio e dal tempo
Dopo che il libro di Ariel Toaff sugli ebrei d’Europa e gli omicidi rituali nel tardo Medioevo, Pasque di sangue, era stato giudicato «aberrante» dai rabbini d’Italia prima ancora che ne avessero potuto leggere una singola pagina, era lecito augurarsi due cose. La prima: che gli storici di mestiere aprissero intorno al volume un dibattito critico. La seconda: che gli intellettuali difendessero comunque la persona di Toaff, la sua piena libertà di ricerca e di espressione. Il dibattito critico si è effettivamente aperto, con il contributo di alcuni fra i maggiori studiosi italiani del Quattro e del Cinquecento (sul Corriere della Sera di venerdì 23 febbraio, Carlo Ginzburg). È stato un dibattito serio, quanto può esserlo una discussione intorno a problemi complessi che si svolge sulle pagine di giornali a larga tiratura anziché in sedi accademiche o scientifiche. E sono emersi due limiti gravi del lavoro di Toaff. Anzitutto, la scarsa chiarezza del suo discorso intorno al carattere episodico o seriale dei reati di sangue da lui attribuiti ai «fondamentalisti» dell’ebraismo ashkenazita tardomedievale. Inoltre, l’impiego disinvolto di testi prodotti dalla controversistica cattolica del Sei o del Settecento, troppo spesso viziati da un pregiudizio antisemita. Ma è stato un altro l’argomento principale brandito dai critici di Toaff, sulla base del quale il libro è stato gettato alle ortiche della storiografia, o addirittura alla sentina dell’etica: l’autore avrebbe preso per buone, quali fonti a sostegno della sua tesi sulla reale occorrenza di omicidi rituali, testimonianze estorte agli imputati attraverso l’uso della tortura. Argomento in apparenza solido, e di sicuro effetto mediatico. Peccato che si tratti di un argomento tre volte pretestuoso. È pretestuoso perché Toaff stesso, lungi dall’ignorarlo, lo prende in conto ad ogni pagina del suo libro, salvo rispondere che a testimonianze di quel genere va riconosciuto un valore, ove se ne trovino riscontri in altre fonti dell’epoca. È pretestuoso perché non soltanto Pasque di sangue, ma molti altri libri importanti di storia religiosa del Quattro e del Cinquecento si fondano sopra fonti inquisitoriali identiche a quelle impiegate da Toaff: testimonianze estorte con la tortura, ma riscontrate mediante controlli incrociati. Ed è pretestuoso perché rimprovera a Toaff di avere fornito «indizi» anziché «prove»: quasi che lo studioso di crimini commessi sei secoli fa possa muoversi sulla scena del delitto con gli strumenti di un ispettore del Ris, trovando in un angolo la pistola ancora fumante, oppure anche meglio tracce organiche da sottomettere alla prova del Dna... Naturalmente, che qualcosa venga confessato sotto tortura non è una prova che quel fatto sia vero. Però, non è neppure una prova che quel fatto sia falso. Lo sanno bene gli aguzzini del ventunesimo secolo, che ancora si servono della tortura non solo per architettare teoremi accusatori o teorie del complotto, ma anche per estorcere ai seviziati informazioni utili circa attività passate, trame presenti, progetti futuri. Da questo punto di vista, escludere a priori che alcuni ebrei fanatici del Medioevo abbiano compiuto gesti omicidi, per il solo motivo che l’hanno confessato sotto tortura, è un ragionamento che dovrebbe offendere qualsiasi intelligenza. Di là dalla discussione di metodo sul libro di Toaff, avvilente è stato lo spettacolo offerto dagli intellettuali italiani in quanto comunità scientifica. Rare, rarissime sono state le prese di posizione in difesa della libertà della cultura, come quella ferma e forte di Piero Ignazi sul Sole-24 Ore. Abbondanti, abbondantissime sono state le reazioni scomposte e le denunce infondate. Colleghi che fino al giorno prima della pubblicazione di Pasque di sangue avevano condiviso con Toaff la direzione della maggiore rivista accademica sulla storia degli ebrei in Italia hanno improvvisamente scoperto che si erano seduti per anni accanto a un dilettante della storiografia, e lo hanno altamente proclamato sui maggiori giornali. Insigni studiosi hanno accusato Toaff di attentare, nientemeno, alla sacralità del Giorno della Memoria: suggerendo un nesso (introvabile, se non nel delirio dell’antisemitismo) fra quanto possa essere accaduto a Ratisbona o a Trento nel tardo Quattrocento e quanto è avvenuto in Europa al tempo della Shoah. Appena pochi giorni prima dell’uscita di Pasque di sangue, la preoccupazione per i rischi insiti nel principio di una «verità storica di Stato» aveva spinto un nutrito gruppo di studiosi a firmare un appello contro il progettato decreto del ministro della Giustizia Mastella, che elevava a reato la negazione della Shoah. Dunque, persino le farneticazioni di quanti negano l’esistenza delle camere a gas erano sembrate degne di tutela giuridica a quanti difendono un’idea di storia come libera ricerca sul passato. Mentre gli studi di un professore da tutti stimato fino a un mese fa, anni e anni di lavoro nelle biblioteche e negli archivi, anni e anni di confronto intellettuale con colleghi e studenti, gli hanno meritato da un giorno all’altro una reputazione infamante. Il fatto che Toaff sia stato lasciato solo ad affrontare la bufera scatenata dal suo libro spiega gli sviluppi successivi della vicenda. La minaccia pendente sul suo capo di perdere il posto di docente universitario in Israele. Il tentativo di alcuni colleghi dell’università Bar-Ilan di prenderne le difese, salvo arrendersi alle ragioni politiche della situazione israeliana e alle pressioni economiche della diaspora americana. Infine, l’abiura di Ariel Toaff: il libro ritirato dal mercato italiano; i diritti d’autore devoluti alla medesima organizzazione ebraica statunitense, l’Anti-Defamation League, che senza nulla sapere del contenuto del volume lo aveva dichiarato ignobile; le scuse presentate da Toaff agli ebrei d’Israele e del mondo. La morale dell’intera vicenda va tratta da un’intervista rilasciata a la Repubblica dal padre di Ariel, Elio Toaff. L’ex rabbino capo della comunità ebraica di Roma si è pubblicamente compiaciuto dell’abiura del figlio, salutandone il ritorno all’ovile del pensiero unico sulla storia dell’ebraismo. Un pensiero che non ammette neppure la possibilità che gli ebrei abbiano avuto una storia in comune con altri uomini e altre donne, i «gentili»: storia fatta di incontri e di scontri, di convivenza e di intolleranza, di rispetto e di odio. Un pensiero che ha bisogno di considerare gli ebrei come al di fuori dello spazio e del tempo: mai nel bene o nel male attori vivi della storia, ma sempre, comunque, unicamente personaggi disossati, agnelli sacrificali, vittime vittime vittime. «Non è parlando di sciocchezze come queste che si salvaguarda la vera essenza dell’ebraismo», ha dichiarato Toaff padre a proposito del libro del figlio. E si avrebbe voglia di replicare, al venerando rabbino emerito della comunità di Roma: «Maestro, siamo proprio sicuri che l’essenza dell’ebraismo si salvaguardi con l’interdetto etico e scientifico? Siamo sicuri che l’abiura alla quale suo figlio è stato obbligato non rappresenti, al contrario, una vergogna per gli ebrei così come per i gentili?».
«Corriere della sera» del 26 febbraio 2007
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