Dopo il 25 aprile si tentò di sovietizzare l’Italia annientando i nemici politici
di Eugenio Di Rienzo
Nel diario politico degli anni 1944-1945 (Concerto a sei voci. Roma 1944-1945: i primi governi dell’Italia liberata, Boroli Editore, pagg. 139, euro 14), Giulio Andreotti sottolinea che la direzione politica, affidata ai rappresentanti dei Comitati di liberazione, costituiva «un pericolo grave per la rinascita democratica e un mezzo che può essere sfruttato per tentativi rivoluzionari», perché i «partiti d’ordine» si trovavano in una posizione di netto svantaggio nei confronti delle forze politiche estremiste che «non rifuggono dall’assolvere contemporaneamente i connotati di governanti e di oppositori».
Fallito il tentativo del Pci di utilizzare l’epurazione antifascista per «distruggere integralmente la pubblica amministrazione, perseguendo così una delle mete rivoluzionarie», il partito di Togliatti affidava il successo dell’iniziativa politica anche alle «squadre armate» e al «piombo dei fucili», scatenando una «violenta opera di giustizia popolare» che, in tutti i territori liberati dall’avanzata degli eserciti alleati, si proponeva di eliminare fisicamente i quadri politici, economici, intellettuali dello schieramento moderato.
Di questa guerra civile, combattuta all’interno della lotta di liberazione, ci parla ora, con rigore di analisi e ricchissima documentazione inedita, Fabio Grassi Orsini nel saggio Guerra di classe e violenza politica in Italia. Dalla liberazione alla svolta centrista (1945-1947) che apre il nuovo numero della rivista Ventunesimo Secolo, diretta da Gaetano Quagliariello e da Viktor Zaslavsky. Dopo il 25 aprile, non si verificò soltanto una spietata «caccia al fascista», ma anche un tentativo di sistematico annientamento di tutti coloro che si reputava potessero essere d’intralcio alla sovietizzazione del nostro Paese. Tentativo intrapreso da gruppi consistenti del mondo partigiano, egemonizzato dal Pci, il quale non aveva rinunciato al ruolo di partito di governo, pur mantenendo in vita la sua organizzazione di «partito armato». La guerra di sterminio contro il nemico di classe poteva così contare su salde retrovie istituzionali: sulla cooperazione di molte amministrazioni locali social-comuniste, sulla connivenza di questori e prefetti «rossi», sulla complicità attiva della famigerata «polizia partigiana» che affiancava allora le forze dell’ordine.
In questo contesto, il Centro-Nord fu teatro di un numero incredibile di aggressioni, rapine, estorsioni, sequestri di persona che colpirono la borghesia. Sempre nelle regioni settentrionali e fino alla Toscana, si moltiplicarono vendette politiche di ex partigiani contro ufficiali e graduati del Regio esercito, che pure avevano rifiutato di collaborare con il governo della Rsi, ma anche contro industriali, sacerdoti, proprietari che avevano fiancheggiato le forze della resistenza. La bonifica antiborghese colpiva indistintamente esponenti della Dc, del Partito liberale, del fronte dell’Uomo qualunque, giornalisti, magistrati, agenti della pubblica sicurezza, carabinieri.
Anche nel Mezzogiorno la situazione dell’ordine pubblico era drammatica. Ai fenomeni di banditismo sociale si aggiungevano continui episodi di violenza politica che, soprattutto in Calabria e in Puglia, si intrecciavano con le lotte economiche sostenute dai partiti della sinistra. Anche Roma non veniva risparmiata. Alle funeste gesta della banda del Gobbo del Quarticciolo (una gang reclutata nel sottobosco comunista) faceva riscontro l’assalto a mano armata del Viminale, capitanato dal deputato del Pci Velio Spano. In buona parte d’Italia, concludeva Benedetto Croce, si replicava lo scenario che aveva accompagnato l’avanzata delle armate comuniste, dalla Polonia all’Istria, e cioè la distruzione di quanto della vecchia classe dirigente nazionale era sopravvissuto all’opera di annientamento del nazismo. Echeggiava questa tesi la testimonianza di un esponente liberale emiliano, il conte Malvezzi, che parlava di un «passaggio senza transizioni dal fascismo nero al fascismo rosso», con «medesimi sistemi di violenza, prepotenza, intimidazioni, minacce», aggiungendo che, a Bologna, «seguitano a scomparire misteriosamente persone, anche notissime, senza che se ne abbiano più notizie».
Una storiografia tendenziosamente innocentista ha accreditato l’impossibilità del vertice comunista di controllare la massa di manovra delle formazione partigiane, ingrossatesi, alla vigilia della liberazione, di molti elementi malavitosi e di reduci della Rsi. Fabio Grassi non liquida del tutto questa ipotesi, ma la ridimensiona decisamente, dimostrando come a livello di Comitato centrale e persino di Consiglio dei ministri, il Pci non avesse mai preso chiaramente le distanze dalle sue frange estremiste o deviate, le quali in ogni caso sarebbero state massicciamente utilizzate per un’opera di intimidazione violenta contro i partiti democratici, alla vigilia delle elezioni politiche e amministrative del 1946-1947.
A quella violenza si pensò di opporre una controviolenza di carattere difensivo, che avrebbe potuto contare sull’apporto dei partigiani cattolici, liberali, nazionalisti delle Brigate Osoppo, primo nucleo di un futuro fronte di resistenza di tutte le forze anticomuniste. L’intera questione sarebbe stata risolta, fortunatamente, a livello politico, quando, dopo la caduta del governo Parri, la Dc avrebbe rotto l’alleanza ciellenistica, per costituire il perno di un blocco di partiti d’ordine. Ma, in ogni caso, l’organizzazione militare del Pci non venne smantellata, neanche dopo le votazioni del 1948, che avevano fatto evolvere il quadro politico verso un assetto fermamente moderato. Come hanno dimostrato due recenti interventi di Salvatore Sechi e Gianni Donno (pubblicati nel 2006 su Nuova Storia Contemporanea) la struttura armata comunista rimase salda, grazie all'apporto organizzativo e finanziario dell’Urss, fino agli anni Settanta e oltre, con l’obiettivo, si disse, di contrastare un golpe di carattere reazionario, ma anche di facilitare l’avanzata e la conquista del territorio italiano da parte degli eserciti del Patto di Varsavia, quando fosse scattata l’«ora X» di un futuro conflitto mondiale. Di quel passato lontano e meno lontano rimane vivo, ancora oggi, un seme di violenza che costituisce uno dei tratti distintivi dell’anomalia italiana.
«Il Giornale» del 21 febbraio 2007
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