Il caso del dottor Riccio
di Francesco D'Agostino
Il comportamento del dott. Mario Riccio, responsabile d'aver "staccato la spina" del respiratore che garantiva la sopravvivenza a Pergiorgio Welby, è stato "ineccepibile dal punto di vista deontologico"; di conseguenza il caso è stato archiviato, su unanime decisione della Commissione disciplinare dell'Ordine dei Medici di Cremona. Dobbiamo concludere perciò che non c'è stata eutanasia, ma solo la sospensione di un trattamento terapeutico, richiesta legittimamente da un paziente competente. E di conseguenza dovremmo rassicurarci: non solo l'azione del dott. Riccio sarebbe stata lecita, ma addirittura meritoria, in quanto avrebbe rispettato la libera volontà di un paziente, competente ed informato.
Tutto bene, dunque? Assolutamente no. Certo, deve restar fermo che in bioetica vale, come nel diritto penale, il principio garantistico in dubio pro reo, che deve indurci a un pieno rispetto formale della decisione presa a Cremona. Questa decisione però non ha dissipato alcuna delle ambiguità che fin dall'inizio avevano caratterizzato la vicenda Welby; non dimentichiamoci che la battaglia politico-culturale che egli ha promosso (quella che gli ha dato la notorietà mediatica, che egli e il suo partito andavano consapevolmente ricercando) è stata inequivocabilmente finalizzata all'approvazione di una legge che legalizzasse l'eutanasia. Ritengo - dato che voglio dar credito alla Commissione di Cremona - che Welby non sia stato ucciso dal dott. Riccio; dubito invece, e fortemente, che la vicenda Welby sia da considerare deontologicamente ineccepibile, in quanto riducibile alla fattispecie di una legale, ancorché drammatica, interruzione di un trattamento medico.
Me ne convincono le stesse dichiarazioni rese alla stampa dal dott. Bianchi, presidente dell'Ordine dei Medici di Cremona, quando ha stigmatizzato "la pesante strumentalizzazione della vicenda da parte di alcune forze politiche allo scopo di portare avanti il discorso sull'eutanasia". Ma è stato proprio questo, e non altro, il cuore del "caso Welby"! Riccio, in altre parole, non solo ha posto la sua figura di medico al servizio di una campagna mediatica (e già questo è deontologicamente discutibile), ma l'ha posta al servizio di una campagna a favore dell'eutanasia, cioè di una pratica che il Codice deontologico proibisce espressamente, senza se e senza ma (art. 17: "Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte").
Riccio, in buona sostanza, ha contribuito a inviare all'opinione pubblica un messaggio, irriducibile alla deontologia medica e che va contro la bimillenaria tradizione ippocratica: quello per il quale il medico può legittimamente e meritoriamente operare per dare ai suoi malati "una morte serena". L'espressione non è mia, ma della signora Mina Welby, che con molta semplicità ha così ringraziato Riccio e messo in chiaro quale sia stata la sua funzione al capezzale del marito. "Morte serena" è una ottima traduzione, in italiano corrente, del termine eutanasia.
Tutto bene, dunque? Assolutamente no. Certo, deve restar fermo che in bioetica vale, come nel diritto penale, il principio garantistico in dubio pro reo, che deve indurci a un pieno rispetto formale della decisione presa a Cremona. Questa decisione però non ha dissipato alcuna delle ambiguità che fin dall'inizio avevano caratterizzato la vicenda Welby; non dimentichiamoci che la battaglia politico-culturale che egli ha promosso (quella che gli ha dato la notorietà mediatica, che egli e il suo partito andavano consapevolmente ricercando) è stata inequivocabilmente finalizzata all'approvazione di una legge che legalizzasse l'eutanasia. Ritengo - dato che voglio dar credito alla Commissione di Cremona - che Welby non sia stato ucciso dal dott. Riccio; dubito invece, e fortemente, che la vicenda Welby sia da considerare deontologicamente ineccepibile, in quanto riducibile alla fattispecie di una legale, ancorché drammatica, interruzione di un trattamento medico.
Me ne convincono le stesse dichiarazioni rese alla stampa dal dott. Bianchi, presidente dell'Ordine dei Medici di Cremona, quando ha stigmatizzato "la pesante strumentalizzazione della vicenda da parte di alcune forze politiche allo scopo di portare avanti il discorso sull'eutanasia". Ma è stato proprio questo, e non altro, il cuore del "caso Welby"! Riccio, in altre parole, non solo ha posto la sua figura di medico al servizio di una campagna mediatica (e già questo è deontologicamente discutibile), ma l'ha posta al servizio di una campagna a favore dell'eutanasia, cioè di una pratica che il Codice deontologico proibisce espressamente, senza se e senza ma (art. 17: "Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte").
Riccio, in buona sostanza, ha contribuito a inviare all'opinione pubblica un messaggio, irriducibile alla deontologia medica e che va contro la bimillenaria tradizione ippocratica: quello per il quale il medico può legittimamente e meritoriamente operare per dare ai suoi malati "una morte serena". L'espressione non è mia, ma della signora Mina Welby, che con molta semplicità ha così ringraziato Riccio e messo in chiaro quale sia stata la sua funzione al capezzale del marito. "Morte serena" è una ottima traduzione, in italiano corrente, del termine eutanasia.
«Avvenire del 2 febbraio 2007
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