06 febbraio 2007

Capitalismo di stato

Banche e finanziamento delle opere pubbliche
Di Francesco Giavazzi
I fondi che investono in infrastrutture (autostrade, porti, aeroporti, ma anche ospedali, reti elettriche e per la distribuzione del gas) sono sempre più numerosi. Solo negli ultimi mesi ne sono nati 5 o 6, ad esempio quello lanciato dalla società americana Carlyle, con una dotazione iniziale di oltre un miliardo di dollari. I fondi dell’australiana Macquarie (che in Italia possiede il 44,5% degli Aeroporti di Roma) investono nel mondo un totale di circa 40 miliardi, abbastanza per costruire otto ponti sullo Stretto di Messina. In Italia accade raramente che opere pubbliche siano finanziate ricorrendo a questi fondi: il motivo per cui esse non decollano è l’incertezza regolamentare. Esemplare è il caso Autostrade: dopo aver firmato una concessione trentennale, oggi il governo ha deciso di riscriverla. E’vero che quella concessione era forse troppo favorevole ai privati, ma lo Stato avrebbe dovuto pensarci prima: rinnegare un contratto firmato ha effetti deleteri e tiene alla larga gli investitori. E quando ciò accade, per finanziare opere pubbliche non rimane che ricorrere alle tasse dei cittadini. La scorsa settimana il governo ha creato un fondo per le infrastrutture nel quale investiranno la Cassa depositi e prestiti, le nostre banche maggiori e le fondazioni bancarie. Ce n’era davvero bisogno? E perché le banche, anziché creare un proprio fondo, come Macquarie o Carlyle, ne sottoscrivono uno la cui regia è saldamente in mano al governo e la cui guida è affidata a Vito Gamberale, già manager delle Partecipazioni statali, poi passato dalla parte dei «cattivi rentier» di Autostrade e ora redento? Il motivo contingente che ha indotto a creare il nuovo fondo è la decisione dell’Antitrust che impone alla Cassa depositi e prestiti di cedere o la partecipazione in Enel o quella in Terna, la società che possiede la rete elettrica. Per non perdere il controllo né dell’una né dell’altra, Terna sarà trasferita al nuovo fondo e quindi rimarrà nella sfera pubblica. Ma a che prezzo avverrà la cessione? Se fosse troppo basso ci perderebbero i contribuenti, se fosse troppo alto a perderci sarebbero gli azionisti delle banche che partecipano al fondo. Per garantire entrambi ci vorrebbe una gara aperta ai fondi internazionali. Ma di gare non si parla. Senza gare e finanziato da banche amiche (ora si capisce perché il governo ha applaudito alla nascita di Intesa-San Paolo) il fondo crescerà: dopo Terna, acquisterà la partecipazione dell’Eni in Snam Rete Gas, poi la rete fissa di Telecom Italia, secondo il principio che le reti devono essere separate dai gestori dei servizi. Questo è giusto. Ma non c’è ragione che siano anche pubbliche. E così, grazie alla tenacia di Prodi, il piano di settembre del suo (ex) consigliere Rovati - che prevedeva appunto la nazionalizzazione della rete fissa di Telecom - arriverà in porto. Vent’anni fa Prodi, allora presidente dell’Iri, cercò di togliere ai privati il controllo di Mediobanca. Non ci riuscì. La nuova Mediobanca nasce oggi, sotto l’ala protettiva di Palazzo Chigi e degli azionisti bresciani di Intesa-San Paolo. Non mi sorprenderei se il prossimo passo fosse la nomina all’Antitrust e all’Autorità per l’energia di qualche commissario perbene, che tuttavia nutre dubbi sulle proprietà taumaturgiche del mercato. Autorità amiche non obietteranno a canoni un po’più alti per l’accesso alle reti possedute dal nuovo fondo. Le risorse del fondo cresceranno e così i suoi orizzonti, per arrivare ad altre mete più ambiziose. Può darsi che tutto ciò sia nell’interesse del Paese ma è legittimo chiedere che un passo tanto importante sia preceduto da una grande e libera discussione.
«Corriere della sera» del 27 gennaio 2007

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