Parla lo psicologo Guido Petter, «sprangato» nel '79 da quel Claudio Latino ora riarrestato: «Nuove Br "ritardate", ma pericolose»
Di Antonella Mariani
«Negli anni ’70 i terroristi erano legati agli studenti, oggi no. Nemmeno questa volta ci sarà la rivoluzione: ma altre vittime come Biagi, forse sì»
Guido Petter da tre giorni gira in lungo e in largo la sua facoltà, quella di Magistero, alla ricerca di eventuali scritte pro-Br. Finora non ne ha trovate. Ha chiamato anche i suoi colleghi di Scienze politiche e di Lettere. Stessa risposta. Ed è stato un sollievo. Perché sapere che, trent'anni dopo l'inferno dell'Autonomia degli anni Settanta, l'Università di Padova esce "pulita" dalle indagini sul nuovo terrorismo, è per lui consolante e liberatorio. Però a Guido Petter una "sorpresa" è stata riservata: quel Claudio Latino arrestato nei giorni scorsi dalla Digos e dichiaratosi «prigioniero politico» è lo stesso che il 19 marzo 1979 organizzò l'aggressione in cui fu colpito a sprangate sotto casa. Il professore di Psicologia non fu l'unico: due giorni dopo toccò al preside di Lettere, Oddone Longo; a settembre poi spararono al professor Ventura, che aveva denunciato sui giornali locali la violenza di Autonomia operaia. Furono colpiti anche giornalisti ed esponenti politici. Prima di oggi, del resto, Padova era già finita al centro delle indagini sulle Brigate rosse: come il 17 giugno 1974 (primo omicidio targato Br, due attivisti missini uccisi nella sede del partito), come il 7 aprile 1977 (l'ondata di arresti nell'ambito dell'indagine del giudice Calogero che voleva dimostrare la contiguità ideologica dei "cattivi maestri" di Autonomia operaia con i brigatisti rossi), come nel 1982, quando fu scoperto, in un appartamento nella prima periferia, il covo dove era rinchiuso il generale Dozier, sequestrato da un commando sotto le insegne della stella a cinque punte. Oggi Guido Petter, classe 1927, ex partigiano della Val d'Ossola, in pensione ma ancora docente a contratto nella stessa facoltà di Magistero, riflette su quei travagliati anni Settanta, che ha anche descritto con intensità nel suo I giorni dell'ombra (Garzanti, 1993).
Professor Petter, ancora Padova. Perché?
«È difficile spiegarlo. Qui non c'era sentore di nulla. All'università non c'è ad oggi nessuna scritta di solidarietà con le Br. Questo mi fa pensare che la colonna padovana sgominata in questi giorni non abbia alcun legame con la gioventù studentesca».
Viene da dire: meno male, considerando cosa si è scatenato nell'università padovana alla fine degli anni Settanta...
«Sì, certo. Quello che osservo tra gli studenti è una forte indifferenza, se non sconcerto, rispetto alla politica. E soprattutto mi consola vedere tra i giovani il rifiuto dell'idea che si possa cambiare la società sparando alle persone».
Non è sempre stato così. Trent'anni fa l'università era un covo di rivoluzionari. Tra gli organizzatori dell'agguato contro di lei, nel 1979, c'era Claudio Latino, oggi tra i brigatisti arrestati. Cosa ha provato quando ha saputo?
«Ho provato molto dispiacere nel vedere una vita bruciata nel segno della violenza. All'epoca in cui fui sprangato era un giovane, oggi è un uomo di 49 anni. Fa impressione sapere che, nonostante il processo subito per l'aggressione, abbia continuato su questa strada assurda, senza uscita, con l'idea che si possa fare una rivoluzione uccidendo la gente».
Il «teorema Calogero» fu in larga parte smontato, però Latino è cresciuto negli ambienti dell'Autonomia, ha fondato un centro sociale ed è diventato un brigatista. La "cultura", allora, ha la stessa radice?
«Be', alla fine degli anni Settanta il movimento dell'Autonomia organizzata e di Potere operaio, qui a Padova, aveva somiglianze con le Brigate rosse, che però furono create da Renato Curcio a Trento come degenerazione del '68. Furono dunque due esperienze diverse, ma qualche analogia effettivamente c'è: entrambi tendevano a smantellare la struttura dello Stato. Legami veri e propri tra l'Autonomia e le Brigate rosse? Non saprei, sicuramente a livello di certi individui come appunto Claudio Latino, che rappresentava l'ala militaresca del movimento studentesco».
E i centri sociali?
«Sono esperienze molto diverse una dall'altra. Però la mia riflessione, maturata anche dall 'analisi di quanto è accaduto nel '68 a Trento, è questa: in quegli anni gli studenti parlavano solo tra di loro, non avevano contatti con la città, si avvitavano in discorsi sempre più estremi. In questi casi è facile entrare in una spirale distruttiva. Da lì sono nate le Br. Lo stesso fenomeno può accadere nei centri sociali».
Il ministro Amato ha detto che i brigatisti arrestati sono dei «ritardati del XX secolo che vivono un tempo che non c'è più». Concorda?
«Sì, concordo. Credo però che sia opportuna una riflessione. Nessuno, oggi, si dimostra impaurito dalle nuove Br perché non si ritiene che le istituzioni siano in pericolo. Giusto. Però, benché "ritardati", questi gruppi sono comunque pericolosi perché possono fare proseliti tra i giovani, che negli Anni di piombo non erano ancora nati e dunque non sanno cosa fu quel periodo per l'Italia, e perché presentano il pericolo di riprodursi. Dunque, i neo-brigatisti la rivoluzione non la faranno, ma possono senz'altro aggravare tensioni già esistenti nel Paese. Inoltre il rischio che possano organizzare un omicidio o un attentato è concreto, quindi a livello individuale il pericolo è molto alto. Del resto lo si è visto in anni recenti, con gli omicidi di D'Antona e di Biagi».
Professor Petter, ancora Padova. Perché?
«È difficile spiegarlo. Qui non c'era sentore di nulla. All'università non c'è ad oggi nessuna scritta di solidarietà con le Br. Questo mi fa pensare che la colonna padovana sgominata in questi giorni non abbia alcun legame con la gioventù studentesca».
Viene da dire: meno male, considerando cosa si è scatenato nell'università padovana alla fine degli anni Settanta...
«Sì, certo. Quello che osservo tra gli studenti è una forte indifferenza, se non sconcerto, rispetto alla politica. E soprattutto mi consola vedere tra i giovani il rifiuto dell'idea che si possa cambiare la società sparando alle persone».
Non è sempre stato così. Trent'anni fa l'università era un covo di rivoluzionari. Tra gli organizzatori dell'agguato contro di lei, nel 1979, c'era Claudio Latino, oggi tra i brigatisti arrestati. Cosa ha provato quando ha saputo?
«Ho provato molto dispiacere nel vedere una vita bruciata nel segno della violenza. All'epoca in cui fui sprangato era un giovane, oggi è un uomo di 49 anni. Fa impressione sapere che, nonostante il processo subito per l'aggressione, abbia continuato su questa strada assurda, senza uscita, con l'idea che si possa fare una rivoluzione uccidendo la gente».
Il «teorema Calogero» fu in larga parte smontato, però Latino è cresciuto negli ambienti dell'Autonomia, ha fondato un centro sociale ed è diventato un brigatista. La "cultura", allora, ha la stessa radice?
«Be', alla fine degli anni Settanta il movimento dell'Autonomia organizzata e di Potere operaio, qui a Padova, aveva somiglianze con le Brigate rosse, che però furono create da Renato Curcio a Trento come degenerazione del '68. Furono dunque due esperienze diverse, ma qualche analogia effettivamente c'è: entrambi tendevano a smantellare la struttura dello Stato. Legami veri e propri tra l'Autonomia e le Brigate rosse? Non saprei, sicuramente a livello di certi individui come appunto Claudio Latino, che rappresentava l'ala militaresca del movimento studentesco».
E i centri sociali?
«Sono esperienze molto diverse una dall'altra. Però la mia riflessione, maturata anche dall 'analisi di quanto è accaduto nel '68 a Trento, è questa: in quegli anni gli studenti parlavano solo tra di loro, non avevano contatti con la città, si avvitavano in discorsi sempre più estremi. In questi casi è facile entrare in una spirale distruttiva. Da lì sono nate le Br. Lo stesso fenomeno può accadere nei centri sociali».
Il ministro Amato ha detto che i brigatisti arrestati sono dei «ritardati del XX secolo che vivono un tempo che non c'è più». Concorda?
«Sì, concordo. Credo però che sia opportuna una riflessione. Nessuno, oggi, si dimostra impaurito dalle nuove Br perché non si ritiene che le istituzioni siano in pericolo. Giusto. Però, benché "ritardati", questi gruppi sono comunque pericolosi perché possono fare proseliti tra i giovani, che negli Anni di piombo non erano ancora nati e dunque non sanno cosa fu quel periodo per l'Italia, e perché presentano il pericolo di riprodursi. Dunque, i neo-brigatisti la rivoluzione non la faranno, ma possono senz'altro aggravare tensioni già esistenti nel Paese. Inoltre il rischio che possano organizzare un omicidio o un attentato è concreto, quindi a livello individuale il pericolo è molto alto. Del resto lo si è visto in anni recenti, con gli omicidi di D'Antona e di Biagi».
«Avvenire» del 17 febbraio 2007
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