La storia di una famiglia, il genocidio di un popolo Scene di orrori, ma per i turchi «la verità è alterata»
Di Giuseppina Manin
Di Giuseppina Manin
Una meravigliosa villa di campagna in mezzo ai melograni, in un anfiteatro di rocce rosse. Un luogo di spensieratezza, di giochi, di ricevimenti eleganti che si trasforma da un giorno all' altro nella casa degli orrori. Dove tutti i maschi, vecchi e bambini compresi, vengono uccisi nei più barbari dei modi: le teste mozzate, le braccia amputate, i genitali strappati. Dove tutte le donne vengono deportate verso il deserto, in attesa di altra violenza, altro dolore, altra morte. La masseria delle allodole, dimora degli Avakian, ricca famiglia armena, dà il titolo al libro di Antonia Arslan (edito da Rizzoli) e ora al film di Paolo e Vittorio Taviani, che ieri sera ha avuto la prima proiezione alla Berlinale Special. Serata molto attesa anche per le voci di possibili contestazioni da parte della folta comunità turca di Berlino, circa 250 mila immigrati, dove ancora il genocidio armeno è tema scottante, capace di scatenare polemiche e odi non sopiti. Per fortuna però le previsioni dello Spiegel che paventava «possibili incidenti» non si sono avverate. Tanto meno si sono viste misure di sicurezza particolari. Detto per inciso, a Berlino, contrariamente a Cannes e a Venezia, non esiste alcun controllo su chi entra nelle sale. E così è stato anche ieri sera. Tutto si è svolto tranquillamente, davanti a una platea affollatissima (molte le persone costrette a sedersi sugli scalini) che ha seguito con attenzione la drammatica vicenda anche se alla fine non ci sono stati applausi. Tra i commenti raccolti all' uscita una certa delusione per il troppo risalto dato dai registi alla parte più «privata», quella sentimental-mélo, a discapito della narrazione storica e di un possibile piglio epico. Ma il film ha comunque il merito di aver affrontato uno dei grandi tabù del Novecento, il genocidio dimenticato del popolo armeno durante la prima guerra mondiale ad opera dei turchi. A quasi un secolo da quei terribili fatti, le vittime, il milione di morti assassinati tra il 1915-17, e tutti i loro discendenti attendono ancora giustizia e ancora c' è in Turchia, come accade in Germania per la Shoah, chi nega che quell' olocausto sia mai avvenuto. In Turchia il dibattito è più che mai aperto, l' argomento è rovente e divide il Paese, oggi in predicato per entrare in Europa, tra chi continua a negare e chi, il premio Nobel Orhan Pamuk in testa, vuol rompere il silenzio. «Siamo convinti che per entrare nell' Unione Europea la Turchia debba riconoscere pubblicamente la verità storica della tragedia armena, come hanno fatto Germania e Italia con il loro passato criminale - sostengono i Taviani -. Questo film nasce da un senso di colpa che riguarda noi tutti». E davanti a certe scene raccapriccianti, ricostruite sulla base di reali testimonianze, altro che senso di colpa. I meccanismi della persecuzione delle minoranze, così necessari al rafforzamento dei regimi, sembrano usare sempre lo stesso orrendo repertorio: le accuse mosse agli armeni («ricchi, falsi e traditori») sono le stesse dei nazisti agli ebrei. E incredibilmente, come accadde agli ebrei, anche la comunità armena sembra non prendere sul serio le tanti voci di un prossimo pogrom. Nel caso degli Avakian a maggior ragione vista l' amicizia che li lega a un colonnello turco, scavalcato però dai gruppi speciali inviati da Istanbul. Molte le scene in cui vien voglia di chiudere gli occhi: bambini squartati, neonati soffocati, donne violate, bruciate vive... Immagini che sollevano sdegno. Ma che hanno pure provocato l' irritazione di alcuni turchi addetti ai lavori. Ahmet Boyacioglu, rappresentante di Euroimages, l' ente che assegna fondi al cinema europeo, sostiene che «il film porta solo odio» e si oppone al finanziamento del 5 per cento di Euroimages. «Si parla di Turchia nel 1915, quando esisteva invece l' Impero Ottomano pur se in disfacimento - precisa -. C' era la guerra, gli armeni erano alleati dei russi, quindi sul fronte opposto. Il nostro vero errore, e lo ammettiamo, è stata la deportazione di massa, ma anche stando alla risoluzione dell' Onu del 1948 non si può parlare di genocidio». E Fulya Canzen, giornalista di Ntv di Istanbul rincalza: «La storia va analizzata dagli storici e non dai registi».
«Corriere della sera» del 14 febrraio 2007
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