Alla ricerca dei caratteri originari della nostra tradizione: come si riscoprono le proprie radici
di Ernesto Galli Della Loggia
di Ernesto Galli Della Loggia
Immaginando intorno al 1870 nel suo Suburban Sketches di uscire per le strade della periferia di Boston e di incontrarvi i vari tipi umani presenti in città, William Dean Howells - uno scrittore americano all’epoca abbastanza noto, cui l’amicizia con Lincoln aveva guadagnato qualche tempo prima la nomina a console a Venezia, e dunque una permanenza abbastanza lunga nella penisola - s’imbatte in numerosi italiani. Che più tipici di così non potrebbero essere: un venditore di statuine proveniente naturalmente da Lucca, alcuni suonatori ambulanti napoletani, un ex garibaldino, un arrotino. Non incontra alcun rappresentante di quella categoria di italiani che invece chiunque ripetesse oggi la passeggiata di Howells incontrerebbe con più facilità: quella dei professori universitari (ci metto anche studenti e borsisti). I quali tra Harvard, Mit e altre istituzioni simili, costituiscono di sicuro il gruppo più numeroso di nostri connazionali attualmente presenti nella capitale del Massachusetts, così come del resto in tante altre località americane, le cui università sono da sempre larghe di accoglienza nei confronti di studiosi provenienti dall’Europa, secondo una tradizione che per noi italiani ha cominciato ad acquistare rilievo già negli anni del fascismo, con l’ospitalità concessa a personalità del rango di Fermi, di Salvemini, del giovane Modigliani. Oggi capita spesso che di questo esodo ci si lamenti (e in parte a ragione, come si capisce) definendolo negativamente come «fuga dei cervelli». A consolazione della quale si invoca il suo risvolto positivo che sarebbe rappresentato - e lo è davvero, naturalmente - dalla conseguente irradiazione della nostra cultura, fino al punto di far dire tuttora a qualcuno, sull’onda di un’antica retorica, che ogni docente italiano in un’università straniera, che lo voglia e ne sia consapevole o meno, sarebbe una sorta di rappresentante, di ambasciatore, come si ama anche dire, della nostra cultura. Dirò tra poco ciò che penso sull’effettiva modalità di questa rappresentanza. Per il momento mi limito ad osservare come il suo ruolo venga in particolare sottolineato quando si tratta degli Stati Uniti: sia perché lì si registra attualmente la massima concentrazione di docenti provenienti dalla penisola, sia perché proprio gli Usa sono stati meta, a suo tempo, di un’imponente emigrazione italiana che ha dato vita ad una comunità vasta e prospera, la quale oggi, tra l’altro, non manca di esercitare la sua influenza anche sulle istituzioni universitarie. Basterebbero da sole queste ultime considerazioni per rallegrarsi della decisione presa dall’Istituto italiano di scienze umane (Sum) - la nuova università, con sede a Firenze, dedicata esclusivamente all’alta formazione dottorale e post-dottorale - di cercare di stabilire un rapporto con i docenti italiani nel Nord America, espandendo così la sua già rilevante attività internazionale. Per la verità l’obiettivo dichiarato - che dovrebbe cominciare a concretizzarsi in un incontro di qui a qualche settimana a Washington - non è all’apparenza troppo ambizioso: costituire una rete permanente tra i professori italiani nel campo delle scienze umane per favorire scambi di informazione, collegamenti, sinergie. Non è forse sbagliato, però, intravedere dietro questo progetto di taglio soprattutto organizzativo un traguardo di assai maggior rilievo: non solo fare del Sum uno stabile punto di riferimento, una sorta di sponda privilegiata per tutta la comunità studiosa italiana in America settentrionale, ma altresì dare una qualche organicità e dunque unitarietà maggiore a quella presenza. Senza irreggimentazioni di sorta, è ovvio, ma pur sempre con l’idea, immagino, di esprimerne se possibile un senso, un volto complessivi. Sorge a questo punto, però, la domanda cruciale: un volto del genere esiste? È rintracciabile cioè nell’odierno panorama culturale del Paese qualcosa che costituisca un suo specifico denominatore comune? Esiste un’identità culturale italiana di cui si possa essere eventualmente ambasciatori come voleva (e forse ancora vuole) la retorica di cui sopra? O esistono invece semplicemente dei colti italiani che nulla distingue realmente dai loro colleghi francesi, tedeschi o americani? L’impresa cui si accinge il Sum lascia intendere, se non sbaglio, che quell’identità alla fine ci sia, anche se su di essa si preferisce per il momento non dire nulla. Giustamente: perché se un’identità specificamente italiana esiste, espressa dai nostri studi umanistici, se oggi esiste davvero un’identità che possa più o meno direttamente ricondursi ai «caratteri originari» della nostra storia e alla tradizione che ivi ha preso forma nel corso dei secoli, ebbene essa è forse rintracciabile più che guardando all’attuale complessa situazione culturale italiana dall’interno, guardando ad essa dall’esterno, stando per così dire «fuori» di essa, per giunta, magari, essendo obbligati ogni giorno a tradurla e mediarla nei confronti di un contesto estraneo. Ed è proprio questa la strada che già oggi, mi pare, si apre in prospettiva davanti all’Istituto di scienze umane, con l’indicazione di un tracciato che potrebbe davvero condurre a un risultato oltremodo significativo, in qualche modo probabilmente già messo in conto. Per capire quale, basta porre mente ad un singolare paradosso. Molto spesso visti dall’Italia i nostri studi, e in generale la nostra cultura (fatte salve naturalmente alcune specificità ineliminabili), appaiono per tanti aspetti aver perso, o stare sul punto di perdere, qualsiasi riconoscibile carattere loro proprio, mostrarsi disponibili assai più di altre culture con noi confinanti ad assorbire prospettive di ricerca, metodologie e interessi d’importazione, poco interessandosi al problema del proprio radicamento nel contesto nazionale in cui si svolgono, della naturale interlocuzione con esso. Ma se alla nostra cultura e ai nostri studi si guarda invece stando all’estero, allora viene più di un dubbio che le cose stiano realmente così. In quel caso, infatti, la mutata prospettiva e la pratica quotidiana del confronto ci fanno vedere le cose nostre in un modo diverso, con un profilo subito riconoscibile, con i loro pregi e i loro difetti nettamente sbalzati. Allora - anche perché più di una volta sono i nostri stessi ospiti stranieri a farcelo notare - siamo costretti ad accorgerci che in quanto italiani ci avviciniamo all’oggetto degli studi con interessi e sensibilità che sono particolari e nostri, che le premesse e gli interrogativi con cui ci avviciniamo alle cose sono fatti in parte significativa di materiali che non vengono dal nulla o da dovunque, bensì da una specifica esperienza culturale con una storia e una tradizione sue. Insomma, nel campo dell’identità culturale è forse proprio nel «dispatrio» - come lo ha chiamato un famoso studioso italiano all’estero, Luigi Meneghello - che scopriamo di avere una patria. Che scopriamo l’esistenza di una cultura italiana. Dunque, per raggiungere il suo vero obiettivo l’iniziativa americana dell’Istituto di scienze umane, lungi dal proporsi, secondo una visione delle cose che ha fatto il suo tempo, di mobilitare degli «ambasciatori», non può che mirare in realtà a organizzare e aiutare degli scout, degli esploratori. Propriamente tali, infatti, sono i nostri studiosi e ricercatori che oggi lavorano all’estero, in specie negli Usa e in Canada: intellettuali italiani che dal misurarsi con ciò che si pensa e si studia su una delle frontiere più avanzate del sapere sono ogni giorno, direttamente o indirettamente, rimandati alla vicenda culturale del proprio Paese, avendo la possibilità in tal modo di scandagliarne le conquiste e le inadeguatezze, di ripercorrerne il cammino, e così di restituirci il senso e la portata della sua identità.
«Corriere della sera» del 18 febbraio 2007
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