A cent'anni dalla morte, il «poeta della Nuova Italia» tra svalutazioni forse frettolose e riletture «politiche»; parlano i critici
di Alessandro Zaccuri
di Alessandro Zaccuri
Gibellini: «Oggi è inattuale, però la sua prosa è profonda e i suoi versi riecheggiano in Attilio Bertolucci e Pasolini»Ferroni: «Siamo lontani dalla figura dell’"artiere", ma andrebbe rivalutato il suo senso della storia popolare»
Da incendiario a pompiere. Anzi, pompier: retorico, enfatico, celebrativo. Non è questa, in definitiva, l'immagine di Giosue Carducci che ci rimane a cento anni esatti dalla morte del «vate della Nuova Italia»? Sì e no, verrebbe da rispondere dopo aver letto i lunghi interventi che all'anniversario carducciano (nato a Valdicastello il 27 luglio 1835, il poeta morì a Bologna il 16 febbraio 1907) dedicano Renzo Paris su Liberazione e, ora, Marco Testi sull'Osservatore Romano. Se infatti l'analisi di Testi mira anzitutto a documentare il legame profondo, anche se mai deterministico, fra l'autore e la temperie storico-politica del suo tempo, l'intervento di Paris è un tentativo di mettere in discussione l'immagine «di destra» di un poeta che, anche dopo essersi assunto l'onere di magnificare l'operato di Casa Savoia, non rinunciò mai all'ideale di una letteratura vigorosamente popolare, che non a caso trova uno dei suoi momenti più compiuti nell'icona dell'«artiere», l'artista-fabbro che forgia con fatica la materia bruta delle parole. Può bastare per spostare a sinistra l'immagine dell'arcimassone Carducci, al quale Aldo A. Mola ha di recente dedicato un documentato profilo biografico (Giosue Carducci: scrittore, politico, massone, edito da Bompiani)? «In realtà fu anzitutto un arcitaliano - sottolinea il critico Pietro Gibellini -, di un'Italia che seppe rimanere carducciana nella lunga transizione dal populismo al nazionalismo, e dal fascismo al postfascismo, continuando tuttavia a riconoscersi nell'atlante di valori squadernato per primo dallo stesso Carducci. Un mito, il suo, che riuscì a sopravvivere anche all'egemonia culturale della sinistra, subendo semmai l'isolata contestazione di un autore cattolico come Piero Bargellini. Insomma, esiste una continuità carducciana di stampo laico-nazionalista che si dimostra più tenace delle apparenti contrapposizioni ideologiche e che trova espressione in quella straordinario catalogo di cartoline illustrate della storia e dei paesaggi d'Italia che è, appunto, l'opera omnia del poeta». Un caso per certi aspetti simile a quello delle diverse "appropriazioni indebite" della Commedia dantesca, verrebbe da pensare. Ma subito Gibellini invita a correggere il tiro: «È un processo nel quale lo stesso Carducci ha avuto parte, certificando l'immagine del "ghibellin fuggiasco". Ma con Dante si può equivocare fino a un certo punto: il testo ha una forza che infine respinge l'equivoco e si impone con chiarezza».
E gli allievi di Carducci? Più fedele Pascoli o più conseguente D'Annunzio? «Entrambi - risponde Gibellini - sono allievi a metà. Carducci rifiuta il decadentismo dannunziano, Pascoli volge le spalle al maestro e si inoltra con determinazione nel Novecento. Il limite di Carducci, al contrario, sta proprio nel suo assoluto radicamento nella cultura e nelle poetiche ottocentesche».
Detto altrimenti, dobbiamo rassegnarci all'idea di un Carducci inattuale? «Soltanto se in questa inattualità riusciamo a distinguere un paio di spunti che ancora ci riguardano da vicino - conclude Gibellini -. Se Carducci è l'Ottocento, questo significa che appartiene a un grande secolo della prosa italiana. E proprio la prosa carducciana, in particolare quella critica, riserva ancora oggi squarci inattesi di profondità e di interesse. Quanto alla poesia, non trascuriamo la dimensione narrativa del miglior Carducci, la cui lezione torna a riecheggiare in autori come Attilio Bertolucci e nello stesso Pier Paolo Pasolini. Il quale, non per nulla, fu un altro appassionato populista…».
«In effetti - commenta l'italianista Giulio Ferroni -, anche se si è consumato in modo lento e graduale, il nostro allontanamento da Carducci appare oggi pressoché irreversibile, tanto che non riusciamo a distinguere quale possa essere l'eredità che l'autore ci lascia. A risultarci estranea, in particolare, è proprio quella figura del "poeta professore" che forse, per paradosso, meriterebbe di essere riscoperta».
Una difesa dell'accademia? «Niente affatto - precisa Ferroni -, semmai una rivalutazione di quel sentimento della storia che costituisce l'aspetto più caratteristico della poetica carducciana. D'accordo, possiamo non condividere certi entusiasmi per i fondali greco-romani e medievaleggianti tanto frequentati da Carducci, però non possiamo trascurare la suggestione esercitata dalla storia popolare e, meglio ancora, dalle memorie familiari, una suggestione che coincide con i luoghi più significativi del nostro passato italiano. Ma anche in questo caso, purtroppo, abbiamo a che fare con un'Italia perduta e non facilmente recuperabile. E appunto per questo, per quanto "poeta civile", Carducci non può essere considerato né di destra né di sinistra, almeno secondo i parametri attuali».
E l'«artiere»? Sorpassato pure quello? «Nei fatti, purtroppo sì - ammette Ferroni -, se guardiamo al panorama di una certa simil-poesia che ottiene oggi grande riscontro. Ma proprio per questo la lezione di Carducci può rivelarsi più attuale di quanto sospettiamo. Si inizia evitando la sciatteria e si prosegue, magari, riscoprendo il rapporto con la tradizione. Non sarebbe poco, di questi tempi».
«Avvenire» del 13 febbraio 2007
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