di Fulvio Panzeri
L'ultimo a scendere in campo (o ad arrivare in libreria) in questo inizio d'anno è proprio il campione d'incassi di questa nuova moda dei romanzetti giovanilisti, pensati e scritti ad uso e consumo degli adolescenti, modulando scritture e trame sui loro desideri e su quelle ambivalenze e retoriche tipiche dell'età. Si sa che l'editoria cerca filoni da spremere e questa formula sembra azzeccata e vincente dal punto di vista del business. Non certo per quanto riguarda il versante della qualità. Arriva quindi Federico Moccia, dopo «Tre metri sopra il cielo» e relativo sequel, con il terzo romanzo e un titolo che è già tutto un programma, «Scusa ma ti chiamo amore», un lancio in stile nazional-popolare, un sito e un concorso abbinato. Protagoniste del libro sono quattro amiche inseparabili che frequentano l'ultimo anno del liceo, con una storia d'amore «forte», in linea con i tempi e con i sondaggi che danno uomini e donne mature molto ambite nell'immaginario dei giovanissimi, quella di una delle amiche per un trentasette, creativo, bella posizione sociale. I luoghi comuni, non tanto vengono evitati, ma inseguiti, così che tutto sembra scontato e l'amore di cui parla il titolo pare uscito da un Cd di Gigi D'Alessio. A ingolosire gli adolescenti ci provano un po' tutti. Non si è ancora spento l'eco del Muccino junior che ha fatto colpo quest'autunno con «Parlami d'amore» (Rizzoli) - un prodotto furbo, costruito a tavolino, con in più l'attore testimonial che diventa scrittore -, che subito scende in pista anche il cantante Matteo Maffucci con «Spielberg ti odio». Sempre stessa sigla editoriale (Rizzoli) per una storia un po' più minimal, con una trama che non si riesce a capire dove voglia andare a parare, mentre racconta lo stato confusionale del protagonista, un venticinquenne, che va a vivere da solo, ma poi si pente ed è crucciato perché la tipa con con cui si vedeva l'ha lasciato, con l'incursione finale di un padre che vuol fare il ragazzino e perle di misticismo da quattro soldi. E considerazioni del tipo: «Non c'è il bene che vince e non c'è il male che ti attacca, sei solo e non sai da che parte stare, ci sei solo tu con tante idee su come ti senti e tante conferme di cui hai bisogno tutti i giorni». Ben si abbinano con le retoriche di un'altra enfant-prodige del mondo adolescenziale, Giulia Carcasi, ventiduenne romana, autrice di un non memorabile libro d'esordio «Ma le stelle quante sono», che tenta la seconda prova, da Feltrinelli, con «Io sono di legno», dove vince la retorica dei sentimenti esasperati e dove il rapporto conflittuale tra madre e figlia qui raccontato è assai ritrito. Nel finale ci regala il meglio, quando scrive: «La pioggia bagna il ricco e il povero, il vecchio e il ragazzino, ci rende tutti ridicoli allo stesso modo, la pioggia non fa distinzioni». I giovani però meriterebbero molto di più di tutte queste parole usurate e prive di significato, in cui ai ragazzi sembra di riconoscersi, ma che invece disegnano un vuoto di veri sentimenti e di veri valori. Il nulla nascosto tra le pagine non aiuta, porta ad un grado di riconoscibilità equiparabile, forse, allo zero assoluto e chi ci guadagna sono solo autori ed editori.
«Avvenire» del 9 febbraio 2007
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