di Michele Brambilla
La notizia è scivolata via quasi inosservata, ma credo abbia molto da dirci su come siamo cambiati un po’ tutti. La riassumo brevemente. Sabato notte a Milano c’è stata una rissa davanti a una discoteca. La polizia ha fermato sedici ragazzi. Tre erano minorenni e sono stati denunciati. Gli altri tredici hanno passato la notte a San Vittore.
Fin qui niente di straordinario. Non stupisce più di tanto neppure il fatto che i sedici in questione siano tutti, come si diceva una volta, di buona famiglia. Quel che colpisce è invece un altro fatto: colpisce che la notte tra sabato e domenica i genitori dei ragazzi abbiano bivaccato di fronte alla Questura gridando «ridateci i nostri figli»; e che due giorni dopo in tribunale, al processo per direttissima, abbiano fatto talmente tanto chiasso contro la polizia («Vergogna, avete trattato i nostri figli come delinquenti») da dover essere allontanati dall’aula.
Evidentemente abituati a giustificare il cocco senza se e senza ma, i genitori hanno trovato anche la spiegazione per tanto accanimento da parte degli agenti: erano nervosi, poveretti, per quel che era successo a Catania. Che una rissa potesse essere davvero avvenuta, e che i loro figli potessero esserne coinvolti, è un sospetto che non li sfiora neppure. E con una tale copertura da parte di papà e mammà non stupisce che una ragazza abbia potuto minacciare i poliziotti di terribili ritorsioni a mezzo stampa: «Voi siete dei pezzenti da milleduecento euro al mese, mia madre è una giornalista e ve la farà pagare». Ah, i bei tempi in cui al massimo era il «cumenda» ad alzare il dito minaccioso davanti a un vigile: lei non sa chi sono io.
Un film già visto, direte. Purtroppo è vero. Anche quando, un paio di anni fa e sempre a Milano, alcuni ragazzi allagarono il liceo Parini procurando danni per centinaia di migliaia di euro, la reazione dei genitori fu a dir poco morbida, e non si fece fatica a trovare il solito sociologo o psicologo o prete progressista che a gettone parla di «un gesto che è spia di un disagio» e di «ragazzi che vanno aiutati». È probabile che chi allaga un liceo o insulta un poliziotto sia vittima di un disagio. Ma siamo sicuri che tra le cause di questi disagi non ci sia anche - perlomeno «anche» - il fatto che noi genitori stiamo rinunciando ad educare e, quando occorre, a punire?
Sarà anche un film già visto, ma è un film dei nostri tempi. Chi ha figli - lo scrivente ne ha quattro, e tutti in età scolare - fa esperienza quasi ogni giorno di come i tempi siano cambiati. Prendiamo ad esempio il classico colloquio con il professore o con la maestra. Quando eravamo bambini noi se in pagella c’era qualche cinque di troppo l’insegnante emetteva la sentenza senza mezzi termini: «Suo figlio è un lazzarone». Nella migliore delle ipotesi diceva: «Non è che sia scemo, è che non si applica». In entrambi i casi rimediavamo un ceffone e una punizione, niente bicicletta per un mese perché la parola dei professori non la si discuteva neppure.
Oggi se un insegnante si azzarda anche a dire, con tutte le buone maniere del mondo, che forse il ragazzo ha bisogno di assistenza, il genitore insorge: ma come si permette, dà dell’handicappato a mio figlio? Se poi c’è una bocciatura, i casi sono due: o ci si accontenta di cambiare scuola «perché quei professori a mio figlio gliel’hanno giurata», oppure si va dritti al Tar.
Ricordo quando ero inviato a Novi Ligure per quella storia terribile di Erika e Omar. Una sera, alla biblioteca, uno psicologo molto noto per i suoi maglioni, il suo ciuffo e le sue comparsate in tv dove fa diagnosi via etere all’universo mondo, parlò ai ragazzi del paese. «Povera Erika», disse, «chissà come non è stata capita dai suoi genitori. Ah, se solo qualche volta le avessero chiesto: come stai?». Credeva di strappare il facile applauso dalla platea; invece prima uno, poi due, poi tre, infine tutti i ragazzi saltarono su e dissero: caro professore, poche balle, quella ragazza ha fatto una cosa terribile e noi giovani da voi adulti non vogliamo giustificazioni a buon mercato, vogliamo che ci diciate che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, che cosa è bene e che cosa è male. L’episodio mi è tornato in mente quando, in «Notte prima degli esami», ho visto una ragazza che, bocciata, si lamentava con un’amica: «Mio padre non mi ha sgridato neanche questa volta. Ma che cosa devo fare per prendermi una sberla?».
Già, cari genitori di Milano: cos’altro devono fare i vostri pargoli per prendersi una sberla?
Fin qui niente di straordinario. Non stupisce più di tanto neppure il fatto che i sedici in questione siano tutti, come si diceva una volta, di buona famiglia. Quel che colpisce è invece un altro fatto: colpisce che la notte tra sabato e domenica i genitori dei ragazzi abbiano bivaccato di fronte alla Questura gridando «ridateci i nostri figli»; e che due giorni dopo in tribunale, al processo per direttissima, abbiano fatto talmente tanto chiasso contro la polizia («Vergogna, avete trattato i nostri figli come delinquenti») da dover essere allontanati dall’aula.
Evidentemente abituati a giustificare il cocco senza se e senza ma, i genitori hanno trovato anche la spiegazione per tanto accanimento da parte degli agenti: erano nervosi, poveretti, per quel che era successo a Catania. Che una rissa potesse essere davvero avvenuta, e che i loro figli potessero esserne coinvolti, è un sospetto che non li sfiora neppure. E con una tale copertura da parte di papà e mammà non stupisce che una ragazza abbia potuto minacciare i poliziotti di terribili ritorsioni a mezzo stampa: «Voi siete dei pezzenti da milleduecento euro al mese, mia madre è una giornalista e ve la farà pagare». Ah, i bei tempi in cui al massimo era il «cumenda» ad alzare il dito minaccioso davanti a un vigile: lei non sa chi sono io.
Un film già visto, direte. Purtroppo è vero. Anche quando, un paio di anni fa e sempre a Milano, alcuni ragazzi allagarono il liceo Parini procurando danni per centinaia di migliaia di euro, la reazione dei genitori fu a dir poco morbida, e non si fece fatica a trovare il solito sociologo o psicologo o prete progressista che a gettone parla di «un gesto che è spia di un disagio» e di «ragazzi che vanno aiutati». È probabile che chi allaga un liceo o insulta un poliziotto sia vittima di un disagio. Ma siamo sicuri che tra le cause di questi disagi non ci sia anche - perlomeno «anche» - il fatto che noi genitori stiamo rinunciando ad educare e, quando occorre, a punire?
Sarà anche un film già visto, ma è un film dei nostri tempi. Chi ha figli - lo scrivente ne ha quattro, e tutti in età scolare - fa esperienza quasi ogni giorno di come i tempi siano cambiati. Prendiamo ad esempio il classico colloquio con il professore o con la maestra. Quando eravamo bambini noi se in pagella c’era qualche cinque di troppo l’insegnante emetteva la sentenza senza mezzi termini: «Suo figlio è un lazzarone». Nella migliore delle ipotesi diceva: «Non è che sia scemo, è che non si applica». In entrambi i casi rimediavamo un ceffone e una punizione, niente bicicletta per un mese perché la parola dei professori non la si discuteva neppure.
Oggi se un insegnante si azzarda anche a dire, con tutte le buone maniere del mondo, che forse il ragazzo ha bisogno di assistenza, il genitore insorge: ma come si permette, dà dell’handicappato a mio figlio? Se poi c’è una bocciatura, i casi sono due: o ci si accontenta di cambiare scuola «perché quei professori a mio figlio gliel’hanno giurata», oppure si va dritti al Tar.
Ricordo quando ero inviato a Novi Ligure per quella storia terribile di Erika e Omar. Una sera, alla biblioteca, uno psicologo molto noto per i suoi maglioni, il suo ciuffo e le sue comparsate in tv dove fa diagnosi via etere all’universo mondo, parlò ai ragazzi del paese. «Povera Erika», disse, «chissà come non è stata capita dai suoi genitori. Ah, se solo qualche volta le avessero chiesto: come stai?». Credeva di strappare il facile applauso dalla platea; invece prima uno, poi due, poi tre, infine tutti i ragazzi saltarono su e dissero: caro professore, poche balle, quella ragazza ha fatto una cosa terribile e noi giovani da voi adulti non vogliamo giustificazioni a buon mercato, vogliamo che ci diciate che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, che cosa è bene e che cosa è male. L’episodio mi è tornato in mente quando, in «Notte prima degli esami», ho visto una ragazza che, bocciata, si lamentava con un’amica: «Mio padre non mi ha sgridato neanche questa volta. Ma che cosa devo fare per prendermi una sberla?».
Già, cari genitori di Milano: cos’altro devono fare i vostri pargoli per prendersi una sberla?
«Il Giornale» dell’8 febbraio 2007
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