06 febbraio 2007

L'ultima moda? Mettersi in vetrina

L’esistenza diventa sempre più un grande talk show:tutto si fa immagine e slogan, dal corpo ai valori, dalle idee alla morte. Un eccesso che fa riflettere: parla il sociologo Vanni Codeluppi
di Rossana Sisti
«La messa in scena delle merci si è estesa a tutto il sistema sociale e culturale: spettacolarizza la vita e alimenta l'esibizionismo, incentiva il desiderio e l'istantaneità. Per molti è gratificante che la propria vita interessi ad altri, ma è una lama a doppio taglio che ci fa diventare oggetti di consumo»

Un soffio e avremmo visto anche quello. L'ultimo istante della vita di Giorgio Welby ci è stato risparmiato, e solo per poco non è finito sotto i riflettori di un talk show. Forse qualcuno si sarebbe indignato, molti avrebbero creduto di essere dentro un reality e speso anche una lacrimuccia. Comprensibile: la tv è il palcoscenico più prestigioso in cui la vita quotidiana, tanto più quella intima, dà spettacolo. Le nostre esistenze prendono vita dentro un'infinità di schermi, dalla tv al computer, al cellulare. Non importa se le storie che ciascuno produce sono banali, vere o verosimili, ciò che conta è l'arte di mettersi in scena, di offrire allo sguardo pubblico il proprio privato come fosse un capolavoro. Con un'abilità senza precedenti oggi si riesce a esporre, a confezionare e a vendere, ciò che in altri tempi non si sarebbe mai osato: il corpo ma anche i sentimenti, le emozioni, le passioni, i momenti crucciali della vita, le opinioni, le convinzioni, i valori. La spettacolarizzazione dell'esistenza è una delle conseguenze più dirette di un cambiamento progressivo dell'intera società, quello che in modo provocatorio Vanni Codeluppi - docente di sociologia dei consumi allo Iulm di Milano - chiama vetrinizzazione. Al fenomeno ha dedicato un pamphlet - intitolato appunto La vetrinizzazione sociale - in uscita oggi da Bollati Boringhieri, ultima puntata di una riflessione sulla capacità comunicativa delle merci e sul potere delle marche.
«Succede - spiega il sociologo - che la messa in scena delle merci è una logica che si è estesa all'intero sistema sociale e culturale: ogni ambito, ogni soggetto ha imparato a comunicare come le merci in vetrina». Invenzione geniale - comparsa nel Settecento poi enfatizzata dalla tecnologia che a partire da metà Ottocento ha permesso la realizzazione di grandi lastre di vetro - la vetrina ha rivoluzionato con una frattura la relazione strada-bottega. Ha sottratto la merce al mercato, dove il venditore funzionava da imbonitore, e con le sue fantasiose messe in scena, studiate per sorprendere, ha obbligato l'individuo a interpretare autonomamente il linguaggio delle merci. E a comportarsi secondo questo modello. «Con la vetrina è nato il negozio moderno - spiega Codeluppi - il palcoscenico sul quale, allestite ad arte, le merci hanno iniziato a comunicare, ad attrarre l'attenzione dei passanti. La vetrina ha coltivato l'arte dello sguardo, ha spinto il desiderio e inaugurato il valore dell'istantaneità». L'attimo che folgora il passante è lo stesso che brucia i consumi, che spinge a ricercare spasmodicamente l'ultima novità. «La vetrina è una perfetta metafora del modello di comunicazione che oggi tende a prevalere - continua Codeluppi - ci esibiamo continuamente e cerchiamo di farlo proponendoci nel migliore dei modi possibile. Le tecnologie non fanno che rafforzare ed esasperare le possibilità di diventare visibili nella grande vetrina sociale. La tv ha legittimato e dato valore a comportamenti banali: davanti alle telecamere si spiattellano fatti privati senza alcuna rilevanza sociale. Le web camere mostrano le dimensioni più intime, idem i cellulari. In internet si cercano sempre più spazi in cui condividere le dimensioni private». Tutto si esaspera: pur di apparire ci si concia da circo, si ricorre all'originalità nello sport più estremo e alternativo, si compiono imprese improbabili per il solo vezzo di entrare nel Guinness dei primati. I milioni di blog che circolano in Rete, le pagine e i siti di autopromozione, vere e proprie vetrine virtuali personali, sono il segno del bisogno di situarsi a metà tra pubblico e privato e contemporaneamente della necessità di dotarsi di un'identità forte nel mare anonimo della Rete.
Il fatto è che quando ci si espone non ci si può più sottrarre allo sguardo: mettersi in vetrina, in luce, implica l'obbligo a esporre tutto, a non lasciare nulla in ombra di ciò che è più privato, sentimenti emozioni o desideri. «È rassicurante e gratificante - pros egue il sociologo - l'idea che la nostra vita sia interessante per qualcuno, tanto che pur di uscire dall'anonimato si è disposti a tutto. Avere un pubblico dà valore all'esistenza ma anche essere pubblico non è da meno: consente di partecipare interattivamente allo spettacolo con uguale gratificazione». Sulla scena le qualità personali, la professionalità o la competenza sono sempre meno influenti rispetto alla capacità di comunicare che assume il corpo, un bell'involucro influenzato dalla moda, definito dai beni di consumo, duttile ai cambiamenti estetici. Il corpo- packaging frutto della fatica da palestra, di cui non si accettano inciampi e decadimenti. Tanto meno quello estremo. Nella vetrinizzazione globale anche la morte ha la sua trasfigurazione mediatica. Spiega ancora Vanni Codeluppi: «La morte che nella società contadina dai legami forti era un momento di forte condivisione comunitaria, nella società post industriale è diventata un evento puramente individuale e inspiegabile. La morte non si concilia con la società dei consumi in cui l'ideale è il benessere e il successo. Anzi è insopportabile, qualcosa di imbarazzante e da nascondere». Da rimuovere e spettacolarizzare, in modo da privarla del suo carico di ansia e di insopportabilità. Ma anche di sacralità. «Una volta vetrinizzata - conclude - anche la morte si trasforma e diventa un oggetto con cui giocare, soprattutto un oggetto da consumare».
«Avvenire» del 1 febbraio 2007

Nessun commento: