Nessuno chiede alla Cgil prove del suo carattere democratico e della sua assoluta
ostilità alle Br
ostilità alle Br
di Sergio Soave
Tra gli arrestati nella recente retata di presunti brigatisti c'è una consistente quota di iscritti alla Cgil e questo, naturalmente, porta a interrogarsi sulla possibile contiguità o strumentalizzazione, da parte dei terroristi, con le lotte sindacali. Naturalmente non c'è da dubitare della salda convinzione democratica dei dirigenti e della stragrande maggioranza dei quadri della maggiore confederazione del lavoro. Il problema è quello della permeabilità, della possibilità per i terroristi di trovare nei momenti più duri delle lotte, nei settori più esasperati del conflitto, uno spazio nel quale annidarsi, mimetizzarsi e, in qualche caso, reclutare adepti. Il problema non è nuovo, purtroppo. La Cgil già dagli anni Settanta ha dovuto misurarsi con questo problema, e lo ha fatto con difficoltà. Solo l'assassinio di Guido Rossa ha spazzato via aree di ambiguità che facevano apparire a una parte del sindacato, soprattutto nelle grandi fabbriche del Nord, intollerabile la pur necessaria collaborazione con le forze dell'ordine e con le direzioni aziendali per isolare i terroristi e i loro fiancheggiatori. Nel corso dei decenni, naturalmente, la vigilanza si è attenuata, il pericolo è parso meno incombente, anche se l'assassinio di Massimo D'Antona e quello di Marco Biagi avrebbero dovuto far intendere che il fiume carsico del partito armato non si era estinto. D'altra parte è comprensibile che, nella logica distorta dei terroristi, le fasi nelle quali la sinistra si impegna in funzioni di governo, lasciando sguarnita l'area della cosiddetta "opposizione sociale", siano quelli nei quali a essi appare più facile presentare l'attacco violento come l'unica forma di autonomia delle lotte operaie. Anche i settori più combattivi della Cgil, quelli che denunciano la logica del "governo amico" come paralizzante, non hanno nulla a che fare con il terrorismo. Tuttavia le parole d'ordine esasperate, la retorica della "lotta dura", l'adozione talora di metodi d'azione al limite del la legalità, possono creare un clima nel quale l'infiltrazione è più facile. C'è anche un aspetto culturale che rende difficile l'identificazione e l'isolamento dei fiancheggiatori dei terroristi, e consiste in una certa sopravvalutazione delle loro qualità intellettuali. Quando Valentino Parlato scrive sul Manifesto che questi poveretti non somigliano a veri brigatisti, fa intendere che per ammazzare qualcuno ci voglia chissà quale preparazione ideologica. Invece no. I terroristi si mimetizzano anche perché sono tutt'altro che dei geni della strategia e dei teorici della lotta di classe. Sono degli estremisti fanatici con tendenze criminali. Come lo erano peraltro quelli che insanguinarono gli anni di piombo. Per un grande sindacato democratico infiltrazioni di questo genere sono un pericolo mortale, che è stato evidentemente sottovalutato. Ci si chiede se le reazioni tutte difensive che si sono sentite dopo la rivelazione della presenza di presunti terroristi nella Cgil siano all'altezza della situazione e dei rischi. Nessuno chiede alla Cgil prove del suo carattere democratico e della sua assoluta ostilità al terrorismo. Si chiede invece che la lotta contro le infiltrazioni terroristiche torni ad essere un effettivo impegno quotidiano del sindacato, a difesa in primo luogo della sua credibilità e del suo ruolo.
«Avvenire» del 14 febbraio 2007
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