Il «ritorno» delle Brigate Rosse; Scalzone che «giustifica» attacchi ai consulenti del governo; Sofri «padre nobile» del partito democratico... Leonardo Marino, il «pentito» del caso Calabresi, denuncia le coperture del terrorismo
di Angelo Picariello
«Chi continua a teorizzare la lotta armata è davvero fuori dal mondo, però è grave che trovi ascolto nelle istituzioni anche a livelli molto alti»
«Nel panino ci vuole cipolle o crauti?». La giornata di Leonardo Marino è scandita dai quesiti minimalisti del lavoro quotidiano. Niente a che vedere con i grandi dilemmi di un tempo, protesta di piazza o lotta armata. Con gli arresti di questi giorni torna l'incubo degli anni '70. «Ma noi venivamo dalle catene di montaggio, questi sembrano fuori dal mondo», dice. E tornano a farsi sentire anche i cattivi maestri. Lui, 19 anni dopo aver confessato di essere stato l'autista dell'omicidio Calabresi, nel suo chiosco di Bocca di Magra si fa maestro solo nel confezionare panini e crêpes cotto e formaggio. Fra i giovani s'è sparsa la voce, non da oggi, nelle Cinque Terre. «Di solito passano qui prima di andare in discoteca». Neanche sanno, forse, chi è Oreste Scalzone che, tornato in Italia a prescrizione acquisita, ha iniziato un tour di incontri sul pericoloso crinale della nonviolenza con troppi se e ma. Intanto la vedova D'Antona attacca i capi del suo partito che innalzano Adriano Sofri fra i "padri" del futuro partito democratico, quasi a evocare l'errore giudiziario. Marino preferirebbe non parlare: «La mia storia pubblica - dice - si è conclusa con la sentenza definitiva». Ma ora si sente di nuovo chiamato in causa: «Errore giudiziario? Otto processi, nove, non ricordo neanche. La revisione, l'appello alla Corte di Strasburgo. Che manca? Tutti questi giudici sono parte di un complotto?». Il suo impegno, però, lo concentra tutto nel livellare sapientemente l'impasto delle crêpes sui fornelli. «Io sono tranquillo, lavoro per vivere. Non ho mai fatto il pentito di Stato - rivendica -, non sono mai stato retribuito, voglio dire. Ho scontato più di tre anni, poi è arrivata la prescrizione. Ma più dure del carcere sono state le calunnie dell'intellighenzia di sinistra». Senza dire di questo freddo che gli tocca patire ogni sera, fino all'una di notte. D'estate fino alle due. Per fortuna nella vita, però, ci sono anche maestri buoni. Uno, rivelatosi decisivo nella sua v ita, se ne è andato 15 anni fa, accompagnando dei ragazzi a una gita in montagna precipitò per un burrone. Si chiamava don Alberto Zanini: «Era professore di religione al liceo di Sarzana, prese tanto a cuore i miei figli, ben sapendo che non erano battezzati, e questo mi colpì. "Gesù vuole più bene a voi, gli altri sono già suoi", diceva. Coinvolse anche me, "ci sono dei ragazzi da accompagnare, dammi una mano", mi disse. Così, in un santuario quassù a Monterosso, conobbi don Bozzo, un sacerdote dal quale poi decisi di confessarmi. Lui invece, povero don Zanini, non fece neanche in tempo a vedere i miei figli battezzati». Ma l'insegnamento dei buoni maestri sopravvive. In marzo all'anniversario della morte a Monterosso, paese natale di don Zanini, la chiesa non ce la fa a contenere tutti. «L'affetto che usava per i miei figli risvegliò dentro di me la fede inculcatami da mia madre e dai salesiani. Il seme prima o poi germoglia, ti resta dentro che le cose brutte o non si fanno o si confessano. Pian piano decisi di togliermi il peso che avevo da quel tragico mattino del 17 maggio di 35 anni fa, quando Bompressi scappando dopo aver ucciso Calabresi mi disse nell'auto: "Che schifo!". Mi confessai con don Bozzo, e lui nel darmi l'assoluzione mi avvertì che era solo il primo passo». Così nel 1988 Leonardo Marino decise di raccontare la sua verità ai giudici sull'omicidio Calabresi, autoaccusandosi. Infine il passo più difficile, con la famiglia: «Ho scritto alla vedova, ho avuto il suo perdono». Nel 1992 Marino, a 20 anni dall'omicidio, scrisse un libro, La verità di piombo. Parlò del ruolo decisivo che ebbe per lui l'Appello degli 800 dell'Espresso. «Leggere quei nomi sotto un appello che chiedeva l'allontanamento di Calabresi dalla polizia e dei giudici che lo avevano assolto dalla magistratura, e che definiva apertamente il commissario "assassino di Pinelli" ebbe per tutti noi un'importanza enorme. Come se, togliendo di mezzo lui, si fosse fatta la massima operazion e di giustizia», scriveva Marino. E la storia si ripete. Oggi Scalzone va in giro sostenendo che Ichino, in fondo, se la va cercando quando teorizza la licenziabilità dei pubblici dipendenti "fannulloni". Quanto a Sofri, tantomeno Pietrostefani che se ne resta a Parigi, Marino preferisce non chiamarli in causa. Ma dice: «I cattivi maestri ci sono sempre stati. Quel che è grave, però, è che trovino ascolto nelle istituzioni a così alti livelli. La grazia? Per quel che so la si accorda a chi si è ravveduto. Non sono contrario, intendiamoci, ma spero che troveranno il coraggio di ammettere i loro sbagli». Ora il redivivo Scalzone racconta che fu l'attore Gian Maria Volonté ad accompagnarlo, in barca, nella fuga verso la Francia. «Mi ha colpito. Conferma quel clima di copertura che c'era intorno a noi. Una sorta di appoggio popolare». E il pensiero va al terrorismo di nuova generazione, a questi arresti che mettono insieme cinquantenni nostalgici e 25enni indottrinati. «Sembra incredibile. Caduto il Muro di Berlino, scoperti gli orrori del comunismo, chi continua a teorizzare la lotta armata è davvero fuori dal mondo. Questi dei centri sociali, poi, ricordano un po' gli hippy, ma con il proletariato che vorrebbero rappresentare non hanno niente a che vedere. I ragazzi semmai andrebbero aiutati a costruire il loro futuro, senza rovinare il loro e quello degli altri». Si vede che l'erba dei cattivi maestri si fatica ad estirparla del tutto. Lui però, con la scusa delle crêpes, qualche insegnamento - buono - cerca di darlo, ai ragazzi. «Qualcuno sa chi sono e mi fa delle domande. Dico di ragionare con la loro testa. Di non andare dietro alle mode, alla massa, alle ideologie. Di rispondere alla propria coscienza». Poi tutto si conclude con le solite domande: «Ci vuole la maionese o il ketchup?».
Da D'Antona a Ichino: così si giustificano i nuovi Br
Negli anni Settanta 800 intellettuali firmarono un appello che indicava il commissario milanese come sicuro colpevole. Oggi altri messaggi in apparenza sottili ma «pesanti» simbolicamente rischiano di offrire una giustificazione alla violenza da parte della sinistra
Angelo Picariello
Quando Olga D'Antona attaccò frontalmente Piero Fassino, segretario del suo partito, l'ultima ondata di arresti per terrorismo non c'era ancora stata. E la vedova del giuslavorista ucciso dalle Br, nel criticare la presenza di Adriano Sofri la scorsa settimana alla presentazione della «mozione Fassino» a sostegno del partito democratico, era sembrata forse una polemista ostinata, un po' fuori dal tempo. Riletto invece solo una settimana dopo, il suo attacco suona quanto mai attuale: «Mi chiedo - diceva Olga D'Antona - quale sia il messaggio simbolico che si intende lanciare e se ciò non rappresenti un vulnus nel rapporto con la magistratura. Premetto - ha aggiunto la deputata dei Ds - che a volte ho avuto modo di apprezzare le cose che Sofri ha scritto e che, in considerazione del suo stato di salute, non ho mai manifestato contrarietà alla concessione della grazia nei suoi confronti per motivi umanitari. Ma mi chiedo perché il gruppo dirigente del mio partito lo sceglie come interlocutore privilegiato. Qual è il messaggio simbolico di questa scelta? Se si ritiene che Sofri sia vittima di un errore giudiziario, in base ad elementi concreti, perché non chiedere la revisione del processo per scagionarlo e cercare i veri colpevoli?». Analogamente anche il rientro in Italia di Oreste Scalzone, dopo più di un quarto di secolo di latitanza in Francia interrotta dalla prescrizione, è avvenuto prima degli ultimi arresti. Il 60enne ex leader di Potere Operaio annunciava un viaggio in Italia per portare in giro una «riflessione sul passato e soprattutto sul futuro di una battaglia di libertà». Viaggio in Italia iniziato con una conferenza stampa a Giano dell'Umbria. E con le prime parole in libertà sul suolo italiano: «Non posso dirmi nonviolento perché se domani c'è una insurrezione io probabilmente sarei pronto a stare in una barricata a sparare. Un vero nonviolento direbbe che non si spara neanche in un'insurrezione. Ma io a questo non ci arrivo», aveva detto Scalzone. Poi l'inquietante scenario emerso dalle inchieste, ma le parole diventano ancora più avventate. Con una frase choc nei confronti di Pietro Ichino, il giuslavorista nel mirino delle Br che propone, fra l'altro, un'Authority della Pubblica Amministrazione che renda possibile, ove ne ricorrano le condizioni di legge, la licenziabilità dei pubblici dipendenti. «Se uno afferma di voler cacciare tutti i fannulloni è meglio capisca che va a toccare dei risentimenti. Inutile poi fare la mammoletta e stupirsi».
«Avvenire» del 15 febbraio 2007
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